Istituzioni di Diritto Privato

Prova – Presunzioni legali

Se le parti concludono un contratto, o combinano un danno, un fatto illecito, muoiono, etc: ogni causa ha il suo effetto, ed ogni meccanismo dipende dalla circostanza che questa ipotesi sia realmente verificata.
In realtà questa attività serve a comportare le conseguenze giuridiche e le prove sono per certi aspetti elementi principali, per altri secondarie.
Essendo la prova incerta non si può dare completo affidamento: si pone il problema di decidere in condizione di incertezza: se non si ha il cadavere come si fa a decidere che ci sia stata una morte? Questo è un criterio di decisione ed il mancato assorbimento di tale peso è gravoso per la soluzione della controversia. Bisogna provare, dato un rapporto contrattuale, il fatto costitutivo della pretesa, e che il contratto non è stato eseguito. Essendo l’inadempimento una prova negativa non può essere provato, pertanto vanno provati solo i positivi. Chi si oppone al diritto deve provare i fatti impeditivi, modificativi ed estintivi del diritto. Il fatto impeditivo è qualcosa che blocca la pretesa dell’attore: chi agisce deve provare l’esistenza del contratto ed il convenuto deve provare il fatto impeditivo che è inadempienza.
Il fatto modificativo prevede la modifica di una accordi precedente, quindi la prova consiste nel provare l’accordo aggiunto. Il fatto estintivo consiste nel provare la fine del rapporto. Se l’attore non prova il fatto costitutivo la sua prova andrà respinta, così come il convenuto senza la sussistenza di prove.
Le pretese giuridiche sono sottoposte al verificarsi di certi fatti ed alla relativa prova: la disciplina è sostanziale e non meramente rappresentativa.
Tutte queste norme hanno il significato incisivo del funzionamento sostanziale del diritto: tutto ciò che non è provato per il diritto non esiste.
Le presunzioni legali sono dei meccanismi dove il legislatore ha modificato la regola dell’art. 2697, e la distribuzione del rischio in ordine all’onere della prova: queste possono essere di due tipi: presunzioni relative e presunzioni assolute e sono delle disposizioni dove il meccanismo dell’onere della prova sono ribaltate: si mette l’onere della prova a carico di qualcuno diverso dall’attore (v. art. 2050).
Chi non riesce a dimostrare i fatti risponderà con responsabilità civile, che è responsabilità oggettiva, incolpevole. Bisogna provare tutti i fatti necessari altrimenti si risponde incolpevolmente.
Il sorvegliante d’incapace può sottrarsi provando di non aver potuto evitare il fatto e le prove richieste sono più limitate.
Nell’art. 2047 vi sono le presunzioni legali con le quali si da la possibilità di una prova liberatoria. Quando non è possibile però provare il contrario si risponde personalmente in modo incolpevole.
In questa norma la colpa è eliminata e la responsabilità si produce del tutto a prescindere dalla colpa presunta in modo assoluto e non è un prerequisito di responsabilità.
L’atto pubblico, la scrittura privata e la scrittura autenticata, sono atti e strumenti di valore probatorio: il primo da l’esistenza sostanziale, la scrittura autenticata da la prova di veridicità ed in fine c’è la scrittura privata. E’ vero che la dichiarazione è stata fatta ma non fa prova la dichiarazione di falso se prima non è confermata. L’atto pubblico fa prova dell’accordo ma non dell’effettività del contenuto. Non si può, salvo querela di falso, sostenere che ciò che è sottoscritto è un falso, etc.
C’è una regola che tempera l’argomento: non si può dare la prova di un fatto dichiarato dalle parti con un documento se non con un altro documento (v. ricevuta) diverso.
Le parti possono provare che ciò che è dichiarato nel contratto non corrisponde a verità solo mediante altro atto, invece i terzi possono farlo con qualsiasi modo. Il terzo può essere il curatore di un fallimento il quale cura nell’interesse dei creditore; non prende il posto del fallito ma è un terzo e ad esso non valgono le prove che valgono per il fallito.
La scrittura privata è quel contratto, dichiarazione negoziale, fatta dalle parti, e non dal notaio (come l’atto pubblico). Può essere anche non chirografico ma deve essere sottoscritto dalle sole parti. Essa fa prova solo contro di chi l’ha sottoscritta; di una contro l’altro, tra le parti in quanto i terzi possono non sapere della scrittura privata. Fanno prova della provenienza della scrittura da chi l’ha sottoscritta salvo che non venga contestata e sottoposta al processo di verificazione, per verificare la firma del soggetto sottoscrivente. Anche per la scrittura privata vale la regola che fatti contrari posso essere provati solo da altra scrittura.
La scrittura non fa mai prova della sua data salvo tre casi:
- 1 Che si sia provveduto alla registrazione del documento con il bollo, che da la sola certezza della data.
- 2 La riproduzione in un atto pubblico dove viene citato il preliminare il quale prende data certa dalla certezza dell’atto pubblico.
La scrittura autenticata viene redatta da privati e sottoscritta da una notaio facendo piena prova della provenienza e della data. Ma le dichiarazioni non sono coperte da piena prova in quanto non espresse davanti al notaio.
Non sempre è possibile la prova documentale in quanto gli stessi contratti e negozi si possono fare a stesse condizioni a forma orale. Se non è prescritta dalla legge la forma scritta non v’è necessità di presentare scrittura privata o autenticata.
Un incidente che da luogo a responsabilità non può essere provato attraverso un documento, pertanto necessita la prova testimoniale che il legislatore pone in diffidenza per deformazione e compiacenza: chi depone non sempre dichiara verità: elementi emotivi, sovrapposizione d’immagini etc, oppure compiacenza (falsa testimonianza o istruzione di testimonianza); in tali casi vi sono sanzioni per gli avvocati che si avvalgono di tali prove testimoniali. Per tali casi non può che provarsi mediante testimone, e la prova può risultare però improbabile, allora in questi casi si rimette alle parti.
In materia di contratti e pagamenti il giudice può non ammettere la prova testimoniale, ma in alcuni casi vi è l’obbligo di ammissione: presenza di documento scritto, o quando l’attore è stato nell’impossibilità materiale o morale di avere una prova scritta, o quando il documento è distrutto o perduto.
La forma scritta può non essere richiesta ab sustantiam ma ad probationem come la transazione.
Poiche la forma scritta è richiesta solo ad probationem è possibile provare anche per via di testimoni; anche la prova testimoniale è lecita. La prova testimoniale è ineliminabile sebbene la diffidenza, in quanto per taluni casi non c’è altra modalità probatoria. Queste presunzioni corrispondono alla prova indiziaria.
L’attore non è sottratto all’onere della prova, ma spetta al giudice di valutare questi indizi se sono precisi, gravi, e concordanti, se non c’è una certezza non è un indizio. L’esistenza di tale indizio deve aumentare il grado di probabilità del caso. Gli indizi non devono essere contradditori, in quanto la contradditorietà non da validità all’indizio.
Altra forma di prova è la confessione (che ha più peso nel diritto civile che nel diritto penale), che è la dichiarazione di una parte contraria al proprio interesse e favorevole ad un’altra parte. E’ il riconoscimento di un fatto produttivo per l’altra parte di un diritto; la confessione ha ad oggetto un fatto costitutivo di un diritto altrui. Le confessioni possono essere stragiudiziali e giudiziali: al di fuori del giudizio o in giudizio (al giudice o alle parti in causa). Quella stragiudiziale può essere a terzi o all’altra parte: nel primo caso non ha piena prova ma il giudice può apprezzarla; se resa all’altra parte ha carattere di piena prova, vincolante, non revocabile e non impugnabile salvo che per errore o violenza.
Non si può impugnare la confessione per errore di diritto, che non è causa di annullamento di dichiarazione confessoria. Affinché sia valida è necessario che il titolare abbia il potere di disporre questo diritto e la rispettiva facoltà. Per le confessioni vale il principio del tutto o niente. La confessione vale nel suo insieme integralmente, non è parzialmente valida. Ci si può avvalere di essa solo nella sua integralità.
Altra forma di prova è il giuramento che è decisorio o suppletorio. Nel corso di un giudizio una parte può deferire all’altra il giuramento. Colui al quale è stato deferito il giuramento può riferire oppure rifiutare, o prestare. Se il giuramento è falso è suscettibile di condanna penale ma l’esito della causa non potrà cambiare, poiché il giuramento è decisorio e da soluzione alla causa.
Il giuramento suppletorio può essere deferito dal giudice quando non si convince dei fatti forniti a titolo probatorio, ma questo può essere fatto solo in presenza di una prova incompleta. Può essere deferito il giuramento dalle parti solo relativamente al quantum del risarcimento.
La pubblicità si distingue in notizia, dichiarativa, costitutiva: notizia è solo per rendere pubblico un fatto al di là degli effetti o dalle cause, serve a dare notizia ma i fatti sono comunque validi ed efficaci (nascita); dichiarativa è quando il fatto è valido ed efficace ma non è opponibile a terzi, non determina l’efficacia dell’atto ma la sua opponibilità (trascrizione); costitutiva è quando a seguito della pubblicazione nasce il diritto o l’effetto (ipoteca).
Suscettibile di trascrizione non è solo la sentenza ma anche la domanda giudiziale: la sentenza prenderà data a partire della trascrizione per effetto prenotativo, come il preliminare di compravendita con l’effetto che non si ha necessaria opponibilità. Perché funzioni la regola della trascrizione è necessario che vi sia continuità.

Disciplina della famiglia

Il diritto di famiglia è disciplinato da alcune norme nel libro primo del c.c. La disciplina della famiglia inizia dall'art. 79. Nel 1948, entrando in vigore la costituzione, sono stati introdotti ulteriori elementi fondamentali del diritto di famiglia agli art. 20 e 30 della Cost. La repubblica riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio e stabilisce un altro principio dicendo che nella famiglia vi è parità di dignità tra i coniugi i quali saullo stesso piano godono degli stessi diritti e sono gravati degli stessi doveri secondo il principio d'eguaglianza per l'uniità familiare. Vi sono ulteriori elementi che sono stati affermati poiché inosservati prima del codice del '42 relativamente ai figli naturali etc. La costituzione si preoccupèa di stabilire principi fondamentali tra i quali l'uguaglianza dei coniugi ed i diritti dei figli naturali. Questi due principi non si trovavano pienamente affermati nel '42, pertanto nel '75 è stata approvata una nuova legge che ha radicalmente modificato la disciplina del c.c. per adeguarla ai principi costituzionali. La disciplina del diritto di famiglia che applichiamo oggi deriva direttamente dalla legge del '75. In termini generali in seguito alla riforma del '75 il rapporto tra i coniugi è regolato dalla legge in armonia e piena eguaglianza; erntrambi in un piano di assoluta parità concorrono alla educazione ed istruzione dei figli tranne un singolo caso particolare (caso d'emergenza). Nel sistema precedente a quello del '75 la regolamentazione giuridica della famiglia e del matrimonio era improntata su una prevalenza del padre-marito: era in atto la patria potestà con una subalternità della moglie-madre. L'istituto della dote, ambito patrimoniale, abolito nel '75, consisteva in un insieme di beni della moglie amministrati assolutamente dal marito così come nel diritto romano. Il godimento di questi beni ed il relativo potere decisionale spettava esclusivamente al marito così anche relativamente ai figli ed alla loro istruzione. Il marito aveva poteri amplissimi che nel '75 sono stati scardinati ed è stata improntata una parità tra i coniugi. E' nato un problema relativo ai contrasti ed alle controverisie; questo contrasto tra i coniugi comporta l'interrogativo della prevalenza: in tal caso può intervenire il giudice che con una valutazione di merito stabilsce chi dei coniugi sia il più meritevole. Per controversie e conflitti relativi alla vita familiare necessita l'intervento del giudice. Il nostro ordinamento distingue le decisioni conflittuali dei coniudi, e quelle relative ai figli. Rispetto al primo gruppo di decisioni (coniugali) il giudice non ha ampio margine di merito e si rimette molto alla decisione delle parti interessate: il giudice ha poco potere decisionale e può solo favorire l'accordo fra i coniugi senza imporre una propria decisione. Relativamente al secondo gruppo (filiazione) è necessario che il giudice entri all'interno delle decisioni e degli interventi per tutelare la posizione dei figli minori all'interno della famiglia anche contro i genitori. Quando la controversia è di interesse per il figlio, il giudice gode di un certo potere decisinale, e può assegnare il potere di decisione a quel genitore che è più idoneo a curare gli interessi del figlio: educazione, istruzione, amministrazione del patrimonio. Il giudice non interviene imponendo la propria decisioni ai genitori insieme ma singolarmente, e quello più meritevole viene scelto come idoneo. Relativamente ai soli coniugi l'ordinamento se ne disinteressa, relativamente alla famiglia l'ordinamento interviene.
All'art 316 comma 4 prevede che se sussiste un incombente pericolo di pregiudizio per il figlio allora il padre può intervenire e prendere la decisione migliore: resta questo reperto archeologico come residuato del vecchio e precedente ordinamento nell'interesse del figlio, e la motivazione ha ragioni storiche. Questa preminenza del padre si giustifica sulla base dell'articolo 29 cost che rimanda alla legge ed alla tutela ed alla garanzia dell'unità familiare derogando l'art. 3 Cost. L'interesse della famiglia in quanto comunità viene prima dell'uguaglianza, anche se l'uguaglianza è l'elemento cardine, principale e fondamentale; la deroga avviene solo in casi urgenti d'emergenza. L'altro aspetto della legge del '75 è quello del trattamento guridico dei figli nati fuori dal matrimonio: naturali. Il precdente sistema conteneva delle forti discriminazioni nei confronti dei figli "illlegittimi", privilegiando i figli nati da giusto matrimonio da ogni punto di vista. La posizione dei figli illegittimi era discriminata anche se non vi era adulterio, quindi da semplice concepimento e nascita in concubinato. Adesso la legge garantisce ai fingli naturali gli stessi diritti dei figli legittimi. Per dare attuazione a questo principio costituzionale si è dovuto escludere il vecchio sistema e si è introdotto il principio della parità di trattamento e di diritti ed obblighi. Vi sono talune ipotesi limitate in deroga nei quali nel confronto tra figli legittimi può concretizzarsi un contrasto con gli interessi dei figli naturali; in tal caso si danno talune prevalenze ai figli legittimi. Il figlio naturale succede allo stesso modo dei figli legittimi; può avvenire che l'eredità sia comunitaria ed indivisa; aperta la successione in questo modo può avvenire che, coinvolgendo figli naturali e legittimi, i legittimi possono escludere dalla comunione ereditaria pagando loro in denaro o in altri beni l'equivalente della quota (facoltà di commutazione). Questa facoltà è costituzionalmente legittima per tutelare i membri della famiglia legittima. Ulteriore distinzione sta nell'assenza dei rapporti di parentela coi parenti dei genitori naturali, ma solo con gli ascendenti. Il diritto di famiglia è una branca del diritto privato, ma diversa dalle altre branche (patrimoniali). Non esistono meccaniscmi di attuazione coattiva di esecuzione dei diritti: esistono vincoli e doveri di fedeltà, assistenza, mantenimento, etc. La natura è del tutto differente ed improntato su principi del tutto diversi.
La parentela ha un concetto tecnico disciplinato da regole ed è un vincolo tra persone che discendono una dall'altra o soggetti che hanno un ascendente comune: padre, figlio, nonno, etc e si parla di ascendenti e discendenti e la parentela è diretta. La parentela può essere collaterale: fratelli, cugini, zio e nipote, etc.. coloro che hanno uno stipite (ascendente) comune. La parentela si calcola mediante dei gradi, e si calcolano contando i passaggi necessari per risalire ad uno stipite comune (parantela in linea retta) e ridiscendento fino al parente (parentela collaterale) come i gradini di una scala: figlio-papà 1 grado; nipote-nonno 2 gradi; fratelli 2 gradi; zio-nipote 3 gradi; cugini 4 grado. L'affinità è il rapporto che c'è con i parenti del coniuge ed il grado è il medesimo: marito e suoceri 1 grado; marito e cognato 2 gradi. Il rapporto con il conige si chiama coniugio.
Il matrimonio è fondato su un accordo e condivide col contratto la natura dell'atto fondato sulla natura dei soggetti con le dichiarazioni di volontà dei soggetti e comprende degli effetti giuridci che derivano dalla volontà dei soggetti che vi prendono parte. L'art. 1321 il contratto è l'accordo tra due o più parti per creare modificare o estinguere situazioni giuridico-patrimoniale. Anche dal matrimonio derivano effetti giuridico-patrimoniali per non solo questi ma anche altri effettie pertanto essendo più rilevanti si colloca fuori al di fuori della nozione di contratto. Il matrimonio ha una struttura simile a quella del contratto ma non si colloca nella medesima categoria. Esiste una nozione di carattere più generale di quella del 1321 che è quella di negozio giuridico ed è una creazione della dottrina ed è stata costruita ed elaborata per ricomprendere in un unca categoria tutti quesi casi in cui l'ordinamento riconosce effetti giuridico in quanto conformi alle volontà delle parti. Il matrimonio può essere considerato come un negozio giuridico. Dal punto di vista giuridico esistono dell condizioni necessarie per la celebrazioni del matrimonio. I prerequisiti sono: diversità del sesso dei coniugi, maggiore età (con l'eccezione del minore emancipato), capacità d'intendere e di volere, libertà di stato (monogamia).
Qualora il matrimonio sia contratto da minori il matrimonio è nullo; l'impedimento dirimente concerne l'invalidità del matrimonio; il matrimonio può essere impedito da rapporti di parentela o di affinità, ma non tutti determinano l'invalidità del matrimonio qualora questo venga celebrato (tra suocero e nuora vi è invalidità, cos' anche tra cognati) ed in questo caso si ha impedimento impediente.
Altro impedimento impediente è che non sia trascorso il tempo sufficente dallo scioglimento del matrimonio precedente per non avere dubbi sulla peternità della filiazione della nuova coppia unita in matrimonio.
Se un figlio nasce entro 300 giorni dallo scioglimento del precedente matrimonio si presume che il padre sia il precedente marito; se un figlio nasce dopo 180 giorni dalla contrazione del matrimonio si presume la paternità del nuovo marito. Se il matrimonio viene celebrato in tempi impedienti non vi è nullità ma ammenda. E' necessario che il consocenso al matrimonio sia integro, esiste infatti una disciplina dei vizi della volontà; così come nel contratto: oltre alla capacità naturale vi sono i vizi come violenza, timore di eccezionale gravità ed errore. Non è previsto il dolo in quanto inglobato qui dall'errore, poiché gode dei medesimi rimedi. E' rilevante quando sia determinante del conscenso e quando si possa provare che conosciuta la reltà non si fosse contratto matrimonio. La malattia o qualsiasi problema fisico o psicologico non è causa di invalidità del matrimonio, sorge solo quando vi sia stato errore su questo elemento. Non si può chiedere un rimedio con l'invalidità del matrimonio per il solo fatto della malattia o del problema fisico o psichico: bisogna provare l'errore. Anche per il matrimonio (come per il contratto) vi è una serie di vizi concernetni la fase genetica determinati dalla mancanza di prerequisiti o dall'esistenza di vizi, e poi un'altra serie di vizi relativi allo svolgimento del rapporto che possono determinare un rimedio che può essere separazione o divorzio. Il matrimonio esige la formalità delle pubblicazioni esponendo al minicio le generalità degli sposi almeno 8 giorni prima così che tutti possono conoscere l'annuncio della notizia del matrimonio. Nel nostro ordinamento esistono due forme di matrimonio: civile (art.106 e ss), celebrato da un ufficiale dello stato civile come il Sindaco e si riduce alla lettura degli articoli del codice civile che concernono i diritti ed i doveri dei coniugi e glio effetti giuridici degli sposi (143, 144, 147) ricevendo le dichiarazioni di volontà delle parti e vinene immediatamente redatto l'atto di matrimonio; e concordatario che è una forma particolare di matrimonio: prima delle moderne codificazioni il matrimonio è stato da sempre materia di competenza della chiesa, quindi alla presenza e celebrato da un ministro del culto cattolico (Prete), ed a partire delle riforme e delle codificazioni si afferma il concetto di matrimonio civile, con la regolamentazione da parte dello stato.
Con il Code Napoleòn si afferma l'idea dello stato laico e delle competenze acquistate dallo stato, l'unico matrimonio riconosciuto è quello civile e ci si separa da quello canonico. In Italia fino al 1929 esiste solo il matrimonio civile (si celebravano 2 matrimoni), e dopo i patti lateranensi ed il concordato si regolano alcune materie tra cui il matrimonio. Nasce il matrimonio concordatario che, celebrato da un sacerdote, produce effetti in entrambi ordinamenti (civile e canonico). Il sacerdote da letture degli articoli e si hanno gli stessi effetti anche dal punto di vista civilistico.

Matrimonio concordatario – Scioglimento del matrimonio

Il matrimonio concordatario è quella forma di matrimonio che nel nostro ordinamento riunisce matrimonio religioso e civile riconosciuto così in entrambi ordinamenti giuridici. Per lungo tempo il matrimonio è stato disciplinato solo dalla Chiesa Cattolica, ma a partire da una certa fase storica con l’affermazione del diritto civile ci fu una duplicità di matrimoni che comportavano due effetti con due cerimonie. Con il concordato si è stabilito che con una sola cerimonia si hanno due effetti: civile e religioso. L’accordo è del 1929 tra Stato e Chiesa. L’adempimento preliminare al matrimonio è costituito dalle pubblicazioni con affissioni e presso la casa comunale,etc. Il matrimonio può essere considerato negozio giuridico che per avere validità necessitano taluni formalismi: il soggetto che celebra il matrimonio deve leggere alcuni articoli del codice civile che stabiliscono diritti e doveri degli sposi e sono gli articoli 143, 144, 147 c.c.; in secondo luogo deve essere trascritto nei registri dello stato civile. La trascrizione è l’ultimo adempimento ed è il momento nel quale lo stato ed il diritto civile esercitano una qualche forma di controllo sul matrimonio avvenuto stesso in quanto la trascrizione è il momento perfezionativo la quale non può avvenire se sussiste una causa che impedisce per il diritto civile italiano una causa d’impedimento: età, capacità, stato coniugato, etc. Dal punto di vista del diritto canonico si hanno impedimenti parzialmente diversi rispetto a quelli del diritto canonico. Il matrimonio civile non è rilevante dal punto di vista canonico e non ha effetti: se un matrimonio civile si compie successivamente in chiesa avrà effetti solo religiosi in quanto civili (trascrizione) risalgono al primo matrimonio (civile); in questo modo lo Stato si riserva un controllo conclusivo sulla validità del matrimonio. Nel diritto canonico è previsto un prerequisito d’età differente rispetto al diritto civile, quindi un matrimonio canonico valido può non essere valido per il diritto civile e quindi non si avrà trascrizione e d effetto dal punto di vista civile. Si cerca con il concordato di riunire le due componenti e gli effetti d’entrambi ordinamenti. Il matrimonio concordatario ha anche un altro aspetto: è soggetto alla giurisdizione concorrente sia dei tribunali ecclesiastici (con un ordinamento separato), sia al tribunale del giudice civile italiano. Questi due giudici appartengono a due ordinamenti distinti e separati, e la giurisdizione è però concorrente: il potere di assumere provvedimenti giuridici cogenti relativi al matrimonio da parte di diversi soggetti (tribunali civili ed ecclesiastici) i quali si ripartiscono i compiti in base alla materia della quale si debbano occupare. Gli sposi devono avere un consenso libero e non viziato. La mancanza di presupposti per contrarre validamente matrimonio comportano i giudici competenti sono quelli ecclesiastici, infatti l’annullamento si chiede al tribunale ecclesiastico. Si tratta tuttavia di pronunce che riguardano impedimenti, vizi, incapacità, vizi di forma, e la dichiarazione d’invalidità di chiede ai tribunali ecclesiastici. Relativamente allo scioglimento del vincolo del matrimoniale (Separazione e Divorzio) è competente il tribunale civile in quanto il tribunale ecclesiastico non possono ammettere lo scioglimento ma tuttavia possono individuare un atto di invalidità. I giudici civili hanno giurisdizione relativamente agli effetti civili: patrimoniale, filiazione, potestà, affidamento, riconoscimento, emancipazione, etc. Bisogna tener ben distinto lo scioglimento dall’invalidità. La giurisdizione ecclesiastica tende a ricondurre tutti i possibili problemi di profilo d’invalidità. E’ vero che esistono dei casi in cui la chiesa per esigenze pratiche ammette la separazione (come nel diritto civile). Dal punto di vista del diritto italiano la non consumazione è causa di divorzio. La tendenza della chiesa è quello di ricondurre lo scioglimento all’invalidità del matrimonio. Il matrimonio concordatario si riferisce solo alla celebrazione del ministro di culto cattolico, in quanto non vi è una stessa disciplina con il matrimonio di altri culti (ammessi dalla legge), i quali godono di un’altra disciplina con forme diverse con condizioni rispettate ed effetti civili.
Gli effetti del matrimonio sono giuridici civili veri e propri in quanto sorgono su piano personale dei coniugi, diritti e doveri reciproci: fedeltà, mantenimento, coabitazione, assistenza, collaborazione, etc. Il sistema giuridico non può chiedere un obbligo coattivo dei doveri poiché hanno natura assolutamente diversa da quella dei doveri contrattuali. Nel nostro ordinamento esistono rimedi alle incombenze del matrimonio: separazione (allentamento momentaneo del vincolo matrimoniale), e divorzio (scioglimento legale del matrimonio), in ogni caso rilevante dal punto di vista giuridico con effetti. La separazione può essere consensuale o giudiziale. Nella separazione occorrerà a provvedere agli aspetti patrimoniale dei coniugi in quanto un coniuge potrebbe essere tenuto a compiere vere e proprie prestazioni patrimoniali. Anche nel meccanismo della separazione (sotto comunque il controllo del giudice) vi sono rilevamenti della colpa della separazione che comporta l’addebito verso l’altro: il coniuge colpevole paga le spese della separazione avendo conseguenze patrimoniali sfavorevoli. Esistono doveri di carattere personale in quanto non coercibili ma tuttavia la violazione comporta addebiti e passivi patrimoniali. Relativamente ai figli con il matrimonio nascono i doveri di mantenimento, educazione ed istruzione (anche per i figli naturali), e nasce soprattutto la presunzione di paternità. La moglie aggiunge il cognome del marito al proprio, e lo mantiene anche nello stato vedovile, e può mantenerlo con ordinanza del giudice anche dopo nuove nozze. Sorgono delle obbligazioni vere e proprie, dei doveri patrimoniali: contribuzione mediante somme economiche o apporto di opere (faccende domestiche). Altro dovere è l’individuazione del regime patrimoniale e giuridico sotto al quale sono sottoposti i beni economici di varia natura che servono ai bisogni economici della famiglia: esistono tre forme di organizzazione della famiglia (rapporti giuridici di tipo patrimoniale che fa capo alla famiglia), e sono il regime della separazione dei beni, la comunione dei beni, ed il regime patrimoniale. I coniugi possono scegliere mediante dichiarazione patrimoniale assoggettare il patrimonio che farà capo alla propria famiglia il quale accordo prende il nome di convenzione matrimoniale e può essere perfezionata prima o durante il matrimonio ( in qualsiasi momento si può modificare o creare il regime) ma deve essere annotata al margine dell’atto di matrimonio. Qualora le convezioni riguardino beni immobili necessità la trascrizione nei registri immobiliari. Esistono dei limiti all’autonomia privata dei coniugi poiché non si può strutturare il regime in modo da creare una disparità di potere tra gli sposi, e non può essere ripristinato l’accordo della dote, in quanto contrario al principio d’eguaglianza. Il limite inderogabile è quello della parità tra gli sposi nella gestione del patrimonio familiare. In mancanza di scelta effettuata dai coniugi vi è un regime legittimo che è quello della comunione dei beni ed una delle più rilevanti innovazioni del diritto di famiglia del 1975 in quanto prima di tale riforma il regime legale era quello della separazione dei beni. La finalità è quella di attuare una effettiva parità tra i coniugi anche dal punto di vista patrimoniale. Il principio dice che tutto ciò che viene acquistato durante il matrimonio fa parte del patrimonio comune dei coniugi, insieme ai risparmi di entrambi così assicurando anche a quel coniuge senza lavoro una quota di partecipazione in stato di parità alla gestione del patrimonio comune coniugale per evitare una posizione di debolezza di un coniuge (spesso moglie), anche perché al momento di scioglimento questo coniuge ha diritto alla metà dei beni e alla metà dei risparmi della coppia. Il primo regime è quello della separazione dei beni e si applica solo quando è voluto da entrambi i coniugi e non si crea alcun patrimonio comune, ciascun coniuge rimane titolare dei propri beni ed al momento di divorzio non vi è divisione di nulla: AD OGNUNO IL SUO. Il regime della comunione legale dei beni costituisce quel regime automatico a seguito di celebrazione di matrimonio: per effetto delle nozze si costituisce un patrimonio comune costituito per far fronte ai bisogni familiari della famiglia, ma non tutti i beni rientrano nel patrimonio comune in quanto taluni beni restano comunque in competenza personale. Essenzialmente rientrano i beni acquistati durante il matrimonio oltre che ai risparmi, Per quanto riguarda l’attivo si ricomprendono beni acquistati durante il matrimonio: qualunque bene acquistato durante il matrimonio diventa automaticamente comune ai coniugi anche se viene acquistato da uno solo dei coniugi all’insaputa dell’altro. Sono comuni i beni acquistati congiuntamente e separatamente. Accanto ai beni ci sono i risparmi i quali fanno parte della comunione in quanto sussistano al momento del suo scioglimento. Se i redditi vengono utilizzati per l’acquisto dei beni questi cadono in comunione altrimenti i redditi non cadono automaticamente in comunione in quanto restano nella proprietà di chi li percepisce lasciando una certa autonomia; solo al momento dello scioglimento questi vengono divisi e ripartiti tra gli sposi. Altri beni non vengono in via attuale ad entrare a far parte della comunione, ma solo se sussistano al momento dello scioglimento (comunione de residuo, differita). I redditi rientrano in quanto risparmi. L’azienda bisogna considerare se costituita prima o dopo il matrimonio e se gestita da uno o da entrambi i coniugi: qualora l’azienda sia costituita e gestita da uno solo dei coniugi da uno solo dei coniugi essa fa parte del patrimonio de residuo. Se l’azienda rientrasse nel patrimonio attuale sarebbe già sotto il potere anche dell’altro coniuge (magari non imprenditore). Si lascia il diritto di proprietà e la libertà effettiva dei coniugi. Al momento della comunione il valore dell’aziende (di cui sia titolare uno solo dei coniugi) viene ripartito con lo scioglimento. Per quanto riguarda le aziende costituite prima del matrimonio se sono gestite da entrambi queste fanno parte del patrimonio attuale della coppia. Se acquistata prima da uno e gestita da uno solo allora spettano all’altro coniuge solo gli incrementi solo al momento dello scioglimento. Siccome bisogna conciliare diritti e patrimoni l’azienda rientra solo allo scioglimento del matrimonio. L’azienda richiede una certa esclusività ed autonomia nella direzione e nell’amministrazione. Il patrimonio comune si divide in patrimonio attuale e patrimonio residuale; accanto a questi vi sono i beni personali: beni acquistati precedentemente, donazioni, eredità (a meno che non vengano disposte per la comunione), beni strettamente personali, beni necessari all’esercizio della professione, beni acquistati col denaro ricavato dalla vendita di uno dei beni personali (surrogazione del bene personale). I beni di uso strettamente personale sono quelli che riguardano temi come lo spazzolino da denti, gli occhiali, l’apparecchio ortodontico, etc. I creditori della famiglia possono essere soddisfatti in primo luogo con la comunione, ad essa devono riferirsi (i coniugi rispondono con metà del patrimonio personale in via sussidiaria). L’automobile entra nel patrimonio attuale familiare, invece i gioielli possono essere considerati tanto come oggetti di valore strettamente personale o come beni di comunione se acquistati con scopo d’investimento.
Poiché ai tratta di un patrimonio comune l’amministrazione spetta ad entrambe i coniugi in parti uguali ed hanno uguali poteri rispetto al patrimonio. Ognuno disgiuntamente può compiere atti di ordinaria amministrazione, ma per atti di straordinaria amministrazione necessità il consenso di entrambi, altrimenti l’atto è annullabile su istanza dell’altro coniuge. L’atto che conoscerne beni mobili sebbene di straordinaria amministrazione è comunque valido ma con l’onere di ricostituire il patrimonio a seguito della disposizione individuale. Altra forma è il patrimonio separato e che serve alle esigenze della famiglia e non è aggredibile dai creditori. Il patrimonio separato è costituito da beni mobili e immobili inaggredibile dai creditori non costituiti per interessi non concernenti strettamente la famiglia. Se un coniuge è imprenditore e costituisce un patrimonio separato non può vedere tale patrimonio aggredibile dall’azione degli altri creditori (quelli differenti della famiglia). La filiazione si distingue in legittima e naturale: la prima è data da giusto matrimonio, l’altra da non matrimonio.


RESPONSABILITÀ CIVILE
1.- La concezione tradizionale: la responsabilità come fattispecie di illecito.
1.1.- La disciplina della responsabilità civile assolve ad una delle tre
funzioni fondamentali del sistema giuridico.
Il sistema giuridico, nell’ambito del diritto privato, svolge tre funzioni
fondamentali:
(1) La funzione attributiva, in vista della quale il diritto provvede ad attribuire
le risorse ed a regolare la loro appropriazione ad opera dei privati; e ciò fa,
fondamentalmente, attraverso la disciplina dei beni giuridici (in quel senso
ampio che include non solo le res materiali e immateriali, ma anche le
energie, i servizi, nella forma dell’obbligazione, ecc.).
(2) La funzione traslativa, che presiede alla circolazione e distribuzione della
ricchezza, e ciò fa attraverso due discipline fondamentali, quella del
contratto e quella delle successioni;
(3) La funzione conservativa, in ragione della quale provvede a garantire che
la ricchezza e le chances acquisitive, che la funzione attributiva ha
assegnato a ciascuno, non vengano distrutte ad opera di altri; e ciò fa
trasferendo la ricchezza distrutta da chi ne ha cagionato la distruzione a chi
ne ha subito la perdita.
All’espletamento di tale funzione conservativa è, per l’appunto, deputata la
responsabilità civile.
1.2.- Storicamente, però, la responsabilità civile non è stata sempre compresa
in questi termini.
Fino a circa cinquant’anni addietro, infatti, la responsabilità civile veniva
costruita intorno all’idea di illecito. Del che si trova traccia ancor oggi nell’uso
che si fa dei termini “illecito civile” o di “fatto illecito” come meri sinonimi di
“responsabilità civile”.
Quest’idea rispondeva ad una tradizionale visione sistematica del diritto,
quella secondo cui l’ordinamento giuridico conosce due tipi fondamentali di atti:
- gli atti leciti (ossia il negozio ed il contratto), ai quali il diritto garantisce
effetti conformi all’intento dei soggetti che li pongono in essere;
- gli atti illeciti, ai quali il diritto reagisce con una sanzione, che può
consistere in una pena pubblica, ossia nella privazione della libertà
personale (= illecito penale) o in un risarcimento, ossia nella privazione di
una parte del proprio patrimonio e nella sua assegnazione in favore di un
altro soggetto (= illecito civile).
In questa prospettiva, allora, alla responsabilità civile veniva ascritta
fondamentalmente una funzione sanzionatoria, segnatamente le veniva ascritto il
duplice scopo di punire il colpevole e di ristorare la vittima.
1.3.- Questa concezione tradizionale della responsabilità civile è entrata
definitivamente in crisi già nella seconda metà del secolo scorso.
Tale crisi è dipesa dai mutamenti intervenuti nei presupposti materiali e ideali che
stavano alla base della concezione tradizionale.
La concezione tradizionale si fondava sulla convinzione che la
responsabilità civile - per come risultava disciplinata nell’art. 1151 c.c. ab. e, poi,
nell’art. 2043 c.c. ’42 - fosse strutturata come un’ordinaria fattispecie giuridica,
cioè come uno schema di fatto risultante da una somma di elementi precisi e
distinti, la necessaria presenza dei quali nel caso da giudicare fosse verificabile
secondo giudizi di conformità del fatto concreto al fatto astratto previsto dalla
norma.
Tali elementi erano concordemente indicati:
(a) nell’illiceità della condotta;
(b) nel carattere colposo di tale condotta;
(c) nel danno;
(d) nel nesso di causalità tra condotta e danno.
Solo in presenza di tutti e quattro questi elementi si assumeva potesse
insorgere l’obbligo del risarcimento del danno in capo a chi tale danno aveva
causato ed in favore di chi lo aveva subito.
Quando questa concezione tradizionale andrà in crisi, ciò che innanzitutto si
metterà in discussione sarà, per l’appunto, che la responsabilità civile possa
funzionare effettivamente secondo questo paradigma della fattispecie e se ne
sosterrà, al contrario, la riconducibilità al diverso paradigma della c.d. clausola
generale.
Per comprendere le ragioni della crisi di tale concezione della responsabilità
civile occorre, inanzitutto, chiarire meglio come si riteneva che tali quattro
elementi della fattispecie funzionassero.
(a) L’illiceità della condotta. Tale requisito rispondeva all’idea che nessuno
può essere ritenuto responsabile delle conseguenze di un suo
comportamento ove tale comportamento non integri la violazione di un
obbligo preesistente. Si tratta – come è evidente - della determinazione di
un generale principio garantistico, proprio delle società liberali dell’’800,
che trovava la sua più chiara enunciazione nell’ambito del diritto penale:
nullum crimen sine lege, ossia non si da sanzione se non per la violazione
di una norma che preesista al comportamento da sanzionare.
(b) La colpa. Tale ulteriore elemento veniva inteso come ascrivibilità della
condotta illecita ad una volontà riprovevole dell’agente. Si tratta, anche in
questo caso, della determinazione di un principio generale che attraversa
l’intera trama del diritto privato, quello secondo cui solo dalla volontà
individuale possono sorgere obbligazioni per gli individui. La colpa
veniva così compresa e spiegata in senso fondamentalmente soggettivo,
ossia come riferibilità dell’illecito ad una disposizione riprovevole della
volontà dell’agente.
(c) Il danno. A giustificazione di tale requisito stava la considerazione che,
poiché il diritto privato si occupava dell’illecito, in luogo o a fianco del
diritto penale, al fine di ovviare al pregiudizio che esso poteva aver
causato, l’intervento della responsabilità civile richiedeva che la colposa
condotta illecita di un soggetto avesse cagionato ad altri il danneggiamento
della loro sfera personale o patrimoniale. Perché un tal pregiudizio
acquisisse rilevanza si richiedeva, però, che il danno presentasse due
caratteristiche:
(c/1) che fosse un danno patrimoniale, e cioè consistente in una perdita
economica o in un mancato guadagno: la protezione dei beni “morali” e
dei valori “ideali” (ad es., dalla vita all’onore) - si argomentava – è
demandata al diritto penale, mentre al diritto privato compete solo quanto
ricade nel campo di ciò che si da come economicamente quantificabile, di
ciò che può, non disdicevolmente, essere tradotto in denaro;
(c/2) che fosse un danno antigiuridico, e cioè consistente nella lesione di
un diritto soggettivo assoluto: dalla premessa che la responsabilità trova
fondamento nell’illecito inteso come violazione di un obbligo preesistente,
infatti, si riteneva discendesse la sola rilevanza aquiliana dei beni tutelati
dall’ordinamento attraverso un obbligo erga omnes di rispetto ed
astensione. Ciò induceva a sostenere la sola rilevanza dei danni
conseguenti a lesioni dei diritti reali e dei diritti della personalità
(entrambi, appunto, assoluti, protetti da un tal obbligo generale di rispetto
ed astensione) e non anche di quelli conseguenti a lesioni dei diritti di
credito, ossia relativi proprio in quanto tutelati esclusivamente nei
confronti dei rispettivi debitori (e la cui violazione dava luogo, perciò,
soltanto a responsabilità contrattuale).
(d) Il nesso di causalità. Perché il danno, patrimoniale e antigiuridico, fosse
ascrivibile alla colposa condotta illecita dell’agente si riteneva necessario
che tra il primo e la seconda intercorresse un nesso di condizionalità, cioè
che la condotta costituisse condicio sine qua non del danno. Ciò induceva
ad escludere la responsabilità tutte le volte in cui tale nesso risultasse
interrotto dall’”illecito altrui” o da un “caso fortuito”.
Ovviamente, nell’applicazione concreta le cose non andavano proprio nel
modo in cui venivano rappresentate attraverso questi concetti. Ma questo modo in
cui la responsabilità civile veniva concepita e rappresentata condizionava, in
misura significativa, il modo in cui essa veniva fatta funzionare nella pratica, e
perciò, quanto meno, ne influenzava le capacità di espansione a nuove ipotesi di
danneggiamento. Sicchè le potenzialità regolative insite nella disciplina della
responsabilità si determinavano in rapporto ad un tal modo di essere della società.
1.4.- Questa rappresentazione tradizionale della disciplina della responsabilità
civile era commisurata a precisi presupposti materiali ed ideali, costituiti
fondamentalmente da:
(a) una società non particolarmente rischiosa;
(b) una ricchezza costituita essenzialmente dai beni immobili;
(c) un’invasività ancora limitata del denaro e del mercato;
(d) il funzionamento di sistemi sociali alternativi di sanzione;
(e) l’influenza dell’idea di fatalità.
Nel corso del ‘900 tutti e cinque questi presupposti subiscono radicali
trasformazioni.
La società del rischio. La caratterizzazione della società contemporanea
come società del rischio si produce sulla base di due fattori concomitanti,
l’introduzione di nuovi rischi e la conoscenza di rischi prima sconosciuti.
L’introduzione di nuovi rischi procede da due processi:
- dallo sviluppo e dalla diffusione della tecnica, che accresce la
complessità non solo dei processi produttivi ma anche della vita sociale in
generale e dissemina gli uni e l’altra di sempre nuove occasioni di incidenti
(basti pensare: che una società dove i mezzi di trasporto erano costituiti
principalmente da carri, cavalli e carrozze viene soppiantata da un mondo
dominato dalle auto, dalle moto, dagli aerei, ecc.; che ad un processo
produttivo ancora centrato sul lavoro manuale si viene sostituendo una
produzione organizzata attorno alle macchine; che energie, materie
infiammabili ed esplosive e, in genere, miriadi di fattori di rischio cominciano
ad attraversare, ormai, quotidianamente la vita di tutti; ecc.);
- dal carattere reiterato che le attività produttive e quotidiane vengono
assumendo, il quale moltiplica il rischio ad esse connesso e rende l’intervento
di incidenti statisticamente necessario ed inevitabile.
Ma la misura del rischio sociale si accresce anche in forza dello sviluppo delle
conoscenze scientifiche che scoprono l’esistenza di pericoli in attività che prima
non si ritenevano rischiose (ad es.: fumo, inquinamento, ecc.)
Come può, allora,. il criterio della colpa fronteggiare una tal società del
rischio? Che significato può avere andare alla ricerca di un comportamento
riprovevole, quando si sappia, a priori, che il danno è, almeno in determinati
contesti e a determinate condizioni, statisticamente inevitabile?
La nuova forma della ricchezza. La ricchezza, un tempo costituita dalla terra e
dagli immobili urbani, assume, ora, forme nuove che non si limitano alla
ricchezza mobiliare (credito, azioni, titoli mobiliari, ecc.) ma si estendono a
conoscenze, informazioni, reputazione economica, controllo di quote di mercato,
ecc.
Ma come può il criterio del danno giuridico, quando sia inteso come lesione
del diritto assoluto, fronteggiare il bisogno di tutela di tali nuove forme di
ricchezza?
L’espansione del mercato. Lo sviluppo della moderna economia di mercato si
presenta non solo come crescita quantitativa delle merci già prima prodotte ma
anche come espansione della forma di merce, come inclusione in essa di beni
“eventuali” e valori “immateriali” che prima non erano considerati suscettibili di
valutazione economica, che non erano ritenuti traducibili in denaro: la vita
privata, la storia personale, la bellezza, la reputazione personale, l’onore, le
relazioni affettive, la cura, ecc.
Ma come può il criterio del danno patrimoniale, costruito sull’idea che non
tutto è tramutabile in denaro, fronteggiare una tal mercantilizzazione della vita,
una società nella quale il denaro, da equivalente generale solo delle merci, si
presenta, ormai, come equivalente generale pressoché di ogni cosa (proprio perché
quasi ogni cosa sembra ormai poter assumere la forma di merce o comunque esser
suscettibile di esser tradotta in denaro).
La consumazione dei sistemi sociali alternativi di sanzione. Valori immateriali
e beni “etici”, che non acquisivano rilevanza giuridica nella rappresentazione
tradizionale della responsabilità civile, trovavano, tuttavia, soddisfazioni
alternative in altri sistemi sociali: dalla riprovazione sociale al duello aristocratico
e popolano, ma anche nel sistema penale.
Ma la crisi di questi sistemi sociali trasforma in domanda di tutela giuridica
quanto in essi trovava prima soddisfazione alternativa. E ciò si traduce in
domanda aggiuntiva di tutela aquiliana e, per conseguenza, in un’ulteriore ragione
di inadeguatezza del criterio del danno patrimoniale.
La consumazione dell’idea di fatalità. Lo sviluppo del sistema di sicurezza e
protezione sociale, che ha contraddistinto l’intera parabola del Welfare State, ha
fatto regredire l’influenza che un tempo esplicava sulla società e sulle vicende
degli uomini l’idea di fatalità, di destino, di disgrazia. Ma su una simile idea si
fondava il funzionamento del criterio della colpa e della causalità, e, soprattutto,
l’accettazione della mancanza di tutela nel caso di assenza di colpa o di
interruzione del nesso causale per il fortuito o l’altrui illecito.
La crisi dell’influenza di tale idea si trasforma, allora, in domanda di tutela
giuridica del danno che prima si imputava al fato e che, proprio per questo, si
accettava rimanesse a carico di chi lo aveva subito.
1.5.- La dottrina tradizionale tentò di salvare la propria visione della
responsabilità attraverso alcune ortopedie concettuali:
(a) Escogita l’idea di inversione dell’onere della prova sulla colpa e di
colpa presunta. La responsabilità di padroni e committenti dell’art. 2049 è, così,
spiegata nei termini della presunzione di una culpa in eligendo; la responsabilità
di genitori, tutori , ecc, è spiegata in termini di presunzione di culpa in educando;
la responsabilità per l’esercizio di attività pericolose è spiegata in termini di
inversione dell’onere della prova circa la colpa.
(b) Escogita l’idea della dilatazione dello schema del diritto assoluto. E
questo fa sulla base di due percorsi dommatici: attraverso la prospettazione di
“nuovi” diritti soggettivi assoluti a fronte di qualsiasi pregiudizio si mostri
meritevole di tutela (diritto all’identità personale, diritto all’oblio, diritto alla
riservatezza, ecc., ma anche diritto al patrimonio, diritto alla libertà contrattuale,
ecc.) e attraverso la prospettazione di una “tutela esterna”, erga omnes (ossia
assoluta), degli stessi diritti (relativi) di credito.
(c) Escogita l’idea della causalità adeguata. E si adopera per tal via a
proporzionare la responsabilità a criteri di regolarità causale in grado tanto di
escludere la risarcibilità di conseguenze “fuori misura” che di estendere la tutela
aquiliana a conseguenze che con i rigidi criteri dell’interruzione del nesso causale
o della causalità diretta ed immediata vi sarebbero sfuggite.
Ma queste ortopedie non appaiono sufficienti e, verso la fine degli anni ‘60 del
secolo scorso, la concezione tradizionale della responsabilità viene sottoposta ad
una critica radicale e, almeno per la dottrina maggioritaria, pressoché definitiva.
2.- La nuova concezione della responsabilità: dall’illecito alla clausola
generale.
2.1.- La svolta viene operata in due direzioni.
Nella prima direzione al paradigma unitario fondato sul principio “nessuna
responsabilità senza colpa” si sostituisce un paradigma dicotomico, che limita
l’operatività della responsabilità soggettiva, ossia fondata sulla colpa, all’ambito
delle “attività biologiche”, cioè al campo delle attività individuali proprie della
vita quotidiana, e sottopone, invece, le attività d’impresa ad una responsabilità
oggettiva (e cioè senza colpa), fondata sul criterio del rischio (d’impresa).
Nella seconda direzione, sottoposta a critica la concezione della responsabilità
come fattispecie di illecito, viene proposta la reinterpretazione dell’art. 2043 come
clausola generale, ossia come proposizione normativa che articola un problema
(= il problema della tutela del danneggiato) e indica per risolverlo una direttiva di
valore (= l’ingiustizia del danno) volta – si dice - a rendere operativo il principio
costituzionale di solidarietà sociale.
Ma mentre la dottrina si dedica ad estendere il nuovo paradigma a sempre
nuove e diverse ipotesi di danno, la giurisprudenza rimane ancora per molto
tempo divisa tra l’utilizzazione del vecchio linguaggio legato all’idea dell’illecito
e l’espansione della responsabilità a nuove fattispecie dannose.
Cosicché, specie nelle sentenze (ma non solo), il linguaggio della
responsabilità civile si mostra ormai un linguaggio confuso: le decisioni appaiono
motivate da dommatiche diverse e tra loro contraddittorie, volta a volta mutuate
dalla concettualità dell’illecito o da quella della clausola generale sulla base di
considerazioni fondamentalmente strumentali, ossia utilizzate volta a volta sulla
base della facilità con cui permettono di argomentare soluzioni giudicate
socialmente accettabili e più persuasive di questa o quella questione aquiliana.
2.2.- La critica del tradizionale principio “nessuna responsabilità senza colpa”
sulla base della teoria del rischio d’impresa fu quella che soprattutto scardinò il
vecchio impianto concettuale centrato sull’idea di illecito. Ma la forma teorica
attraverso la quale l’assetto tradizionale della responsabilità civile venne
radicalmente innovato fu, invece, rappresentata dalla ricostruzione dell’art. 2043
come “clausola generale”.
Ciò ha un duplice ordine di spiegazioni:
(a) La prima spiegazione è che le ortopedie della vecchia dommatica,
costituite dai dispositivi della colpa presunta e dell’inversione dell’onere
della prova, tutto sommato, consentivano operazioni certamente
finzionistiche ma in grado di far fronte all’obsolescenza del criterio della
colpa. La dottrina del rischio d’impresa, perciò, appariva (ed in larga
misura appare tuttora) surrogabile con strumenti interpretativi che ne
perseguivano la sostanza senza costringere all’esplicito abbandono del
linguaggio tradizionale.
(b) La seconda spiegazione è che, al contrario, lo schema dell’illiceità ed il
conseguente requisito dell’antigiuridicità del danno si presentavano più
rigidi e si prestavano meno ad aprire la responsabilità alla considerazione
dei “nuovi” danni. Precisamente, lo schema dell’illiceità e
dell’antigiuridicità del danno implicava una concezione tipica della
responsabilità, ossia un’articolazione di tale istituto intorno a ipotesi di
danno ritenute, o rappresentate come, tipiche, che nella sostanza profonda
era avvertita come ostativa di un’espansione della tutela aquiliana
considerata ormai ineluttabile. Il paradigma della clausola generale
sembrava, perciò, l’unica via in grado di assecondare un tal accresciuto
bisogno di tutela.
Al contrario, il dispositivo della clausola generale permetteva di intervenire
tanto sul piano del superamento della centralità della colpa che sul piano
dell’ampliamento dei beni ed interessi protetti dalla tutela aquiliana: sul primo
piano, consentiva di prospettare la colpa come una semplice “variabile” della
clausola generale, come uno tra i molteplici criteri di imputazione sulla base dei
quali il danno poteva essere addebitato ad un soggetto diverso da quello che lo
aveva subito; sul secondo piano, permetteva di sostituire al criterio tipico, e perciò
tendenzialmente rigido, della lesione di un diritto soggettivo il filtro elastico
dell’ingiustizia che sembrava in grado di dar rilevanza a qualsiasi pregiudizio la
cui sopportazione venisse avvertita come ormai socialmente intollerabile.
La maggior fortuna del riferimento alla “clausola generale nasceva, allora, dal
fatto che essa proponeva una comprensione ed un funzionamento della
responsabilità come “struttura aperta”, come strumento essenzialmente atipico di
rilevazione e riallocazione dei danni destinato ad essere implementato da un
giudice, che, da un lato, si dava come il terminale dei nuovi conflitti aquiliani e
delle loro mutate fenomenologie e che, dall’altro, appariva come il catalizzatore di
una diversa sensibilità sociale e dei suoi nuovi valori.
2.3.- Questo nuovo corso della responsabilità civile si fonda sulla
contrapposizione tra regolazione per fattispecie e regolazione per clausole
generali.
La differenza tra queste due forme di regolazione della responsabilità si
rappresenta essenzialmente in questi termini:
(a) La “fattispecie” si fa consistere in una somma di elementi analiticamente
determinati e compiutamente descritti da una norma, dei quali occorre di
volta in volta riscontrare la presenza nel caso concreto; sicchè la
produzione dell’effetto giuridico disposto da una tale norma dipende
esclusivamente dalla ricorrenza nel caso concreto di tutti gli elementi che
concorrono a determinare il caso in essa astrattamente descritto, ossia
dipende da un mero giudizio di conformità tra la fattispecie astratta
prevista dalla norma e la fattispecie concreta sottoposta a giudizio. La
regolazione della responsabilità si dice, perciò, affidata alla tecnica della
fattispecie, allorché la norma destinata a risolvere i conflitti aquiliani
faccia dipendere l’insorgere dell’obbligo di risarcimento dalla presenza nel
caso concreto di tutti gli elementi da essa previsti ed esattamente descritti
(= colpa + illiceità + danno patrimoniale e antigiuridico + nesso di
causalità).
(b) La “clausola generale”, invece, si dice prospetti solo un problema e ne
affidi la soluzione ad un apprezzamento del giudice da formulare volta a
volta sulla base di una direttiva normativa generale, ossia del riferimento
del caso da decidere direttamente ad un “valore”. La regolazione della
responsabilità si dice, perciò, affidata ad una clausola generale, quando la
norma deputata a risolvere i conflitti aquiliani si limiti a prevedere un
“fatto”, la causazione di un danno, e faccia dipendere il risarcimento di chi
lo ha subito dalla qualificabilità di tale “fatto” come “ingiusto”, ossia da
un apprezzamento del giudice che lo ritenga contrario al “valore” della
solidarietà sociale, nonché dalla sua riferibilità ad un soggetto diverso
dalla vittima sulla base di un criterio di collegamento variabile, quale la
colpa o il rischio.
Su questa base, l’art. 2043 non è più rappresentato come una norma che
dettagliatamente enumera i diversi elementi della fattispecie di responsabilità; ma
come un dispositivo aperto, articolato attorno ad un nucleo costante, costituito dal
“fatto dannoso” e dalla sua “ingiustizia”, ed a molteplici variabili, costituite dai
criteri di imputazione, taluni soltanto dei quali (= dolo e colpa) in tale norma
indicati.
Tale ricostruzione della responsabilità perseguiva, fondamentalmente, due
obbiettivi:
(a) Il primo obbiettivo riguardava i criteri di imputazione del danno, era
connesso all’idea che il “fatto dannoso” risultasse collegabile a chi era
tenuto a risponderne sulla base di una molteplicità di variabili e consisteva
nel presentare colpa e rischio come criteri di imputazione del danno del
tutto fungibili e di pari dignità. Con il che – ovviamente – si destituiva il
tradizionale primato della colpa.
(b) Il secondo obbiettivo riguardava, invece, il danno ed era connesso all’idea
che sostituiva la predeterminazione tipica della sua rilevanza (attraverso il
rinvio alla categoria chiusa dei diritti soggettivi) con un giudizio ex post
che il giudice era chiamato a formulare sulla base di una direttiva generale,
che faceva diretto riferimento a valori. Con il che si scardinava il regime di
tipicità fondato sulla sola rilevanza della lesione dei diritti soggettivi che si
assumeva caratterizzasse la responsabilità civile.
Ma entrambi questi obbiettivi comportavano, più in generale, un radicale
cambiamento della stessa funzione della responsabilità e del suo rapporto
sistematico con le altre normative del diritto privato, addirittura quasi un
capovolgimento del rapporto della tutela aquiliana con le altre tutele privatistiche:
a) Nella concezione tradizionale, lo schema dell’illecito e la conseguente
tipicità dei danni tutelati dall’art. 2043 implicavano un carattere
essenzialmente secondario (o sanzionatorio) della tutela aquiliana rispetto
alle normative che presiedono all’attribuzione delle risorse: la tutela
aquiliana presuppone che il bene leso sia già attribuito ad un soggetto in
forza di una norma diversa e che la responsabilità sia chiamata a svolgere
una funzione sanzionatoria della violazione di tale preesistente norma
attributiva;
b) Nella nuova concezione, invece, la clausola generale di responsabilità e la
conseguente atipicità dei danni da essa tutelabili implicano un carattere
essenzialmente primario (o attributivo) della tutela aquiliana: il rimedio
risarcitorio non presuppone più che il bene leso sia fatto oggetto di una
precedente espressa tutela attributiva, e dunque appare chiamato ad
attribuire ad un tale bene una rilevanza giuridica che altrimenti gli
mancherebbe.
In queste nuove concezioni, dunque, la responsabilità civile, invece che come
tutela servente delle altre tutele, si propone, piuttosto, come strumento per
attribuire rilevanza giuridica a beni e interessi che l’ordinamento non ha altrove
considerato, rimasti altrimenti estranei alla protezione del diritto: il giudice
sarebbe, così, chiamato ad operare una valutazione comparativa della posizione e
dell’interesse del danneggiato e della posizione e dell’interesse del danneggiante
secondo il metro generale dell’”ingiustizia” e su questa base sarebbe deputato a
dare ingresso o negare, di volta in volta, la tutela aquiliana.
Su questa base, allora, tutto il dibattito, che ormai da quasi cinquant’anni
travaglia la ricostruzione della responsabilità civile, si è venuto sviluppando, e
almeno in parte continua a svilupparsi tuttora, attorno ad una polarizzazione tra
tradizione e innovazione che può articolarsi nelle due seguenti sequenze:
a) Tradizione = primato della colpa = illecito = carattere
secondario/sanzionatorio della responsabilità = tipicità dei beni protetti =
struttura chiusa del rimedio aquiliano = esclusiva rilevanza della lesione
dei diritti soggettivi assoluti:
b) Innovazione = clausola generale = carattere primario della responsabilità =
atipicità dei beni protetti = struttura aperta del rimedio aquiliano =
rilevanza della lesione di qualsiasi bene che possa qualificarsi come
“ingiusta” secondo il principio di solidarietà = molteplicità dei criteri di
collegamento.
In breve, l’alternativa che tali due sequenze propongono può essere
illustrata in questi termini:
a) Il carattere secondario o sanzionatorio della responsabilità civile implica
che la sua tutela sia subordinata alla violazione di obblighi e doveri
preesistenti quali si danno solo in presenza di un diritto soggettivo
assoluto;
b) Il carattere primario della responsabilità civile implica, invece, che essa si
presenti come uno strumento volto a conferire rilevanza a beni e interessi
non altrimenti prima considerati dall’ordinamento giuridico.
L’alternativa sottesa al carattere primario o secondario della responsabilità
dipende, perciò, dal carattere tipico o atipico di questa tutela e tale carattere, a sua
volta, dipende dalla subordinazione della rilevanza aquiliana di beni e interessi
alla previsione di una previa espressa norma attributiva o, piuttosto, ad un criterio
autonomo di valorazione delle aspettative individuali chiamato a svolgere una
funzione di protezione sostanzialmente concorrente con la funzione attributiva.
3.- Il problema dell’ingiustizia del danno.
3.1.- In realtà, queste coppie oppositive, che presiedono all’attuale
dibattito sulla responsabilità civile, costituiscono solo delle metafore, ossia delle
figure retoriche destinate a rappresentare in modo solo intuitivo, e assolutamente
approssimativo, le condizioni di funzionamento del rimedio aquiliano.
Tanto la sequenza tradizionale dell’illecito che la nuova sequenza costruita
a partire dalla clausola generale si mostrano, a ben vedere, del tutto infondate.
La sequenza che muove dall’idea dell’illecito è smentita dalle molteplici
ipotesi nelle quali si dà responsabilità del danneggiante pur nell’impossibilità di
ricondurre il pregiudizio subito dal danneggiato alla lesione di un diritto
soggettivo.
In realtà, l’equazione tra illecito e violazione del diritto soggettivo assoluto
si fonda su un vero e proprio qui pro quo: l’obbligo generale di rispetto o di
astensione, che presiede alla tutela del diritto assoluto e la cui violazione si
vorrebbe integrasse l’antigiuridicità del danno, in verità, è rivolto a garantire al
proprietario (o al titolare di un diritto reale minore) tutte le utilità offerte dalla
cosa oggetto del suo diritto rispetto alle pretese di terzi che vorrebbero
appropriarsene. Esso, perciò, si limita a vietare il compimento di atti di godimento
riservati al titolare del diritto e non ha, invece, proprio nulla a che fare con il
divieto di danneggiare le cose altrui.
La sequenza che muove dall’idea della clausola generale mostra i suoi
limiti allorché è chiamata a discriminare operativamente tra danni da ammettere
alla tutela aquiliana e danni destinati a rimanere a carico di chi li ha subiti.
In realtà, aggiungendo all’elemento del danno l’aggettivo “ingiusto” il
legislatore del 1942 intendeva solo ratificare la communis opinio secondo cui
doveva ritenersi risarcibile solo il danno contra jus e sine jure. Prevedendo il
requisito dell’”ingiustizia”, dunque, quel legislatore non pensava affatto di
conferire alla responsabilità civile una funzione diversa da quella già conosciuta
sotto la vigenza dell’art. 1151 c.c. ab., ossia una funzione para-attributiva rimessa
al sentimento sociale e governata dai giudici, ma voleva solo ribadirne la
preordinazione a conservare sfere giuridiche già autonomamente predefinite dal
sistema giuridico.
L’evoluzione giurisprudenziale ed il dibattito dottrinale che la ha
preceduta ed accompagnata mostrano che lo snodo centrale della responsabilità, il
“luogo” ove soprattutto si determina la sua generale funzione sistematica è
costituito dal problema della sua tipicità o atipicità.
Questo problema appare legato, innanzitutto, al requisito dell’”ingiustizia”
che l’art. 2043 vuole abbia il danno perché possa darsi ingresso al rimedio del
risarcimento.
Occorre, allora, chiedersi a quali condizioni il sistema giuridico abbia
inteso subordinare la rilevanza aquiliana di un pregiudizio e quali questioni tali
condizioni propongano a chi è chiamato ad interrogarsi sulla sua risarcibilità
Per mettere a fuoco adeguatamente le questioni che il requisito
dell’ingiustizia del danno solleva, occorre superare due radicati pregiudizi che
attengono, rispettivamente, alle forme in cui il diritto moderno sviluppa la propria
funzione attributiva e alla struttura dei conflitti aquiliani.
Il primo pregiudizio è quello secondo cui la funzione attributiva si da solo
nella forma del diritto soggettivo.
In realtà, il diritto soggettivo non è affatto la sola forma in cui il diritto
moderno provvede alla attribuzione normativa di ricchezza/valori ed
all’organizzazione dell’appropriazione privata delle risorse.
Quest’idea nasce da un modo approssimativo di intendere la funzione
attributiva, e cioè dall’idea che il sistema giuridico determini una volta per tutte
ed in via tipica le risorse da sottoporre ad appropriazione privata e che faccia
questo con il dispositivo correlato del diritto e dell’obbligo tipico del diritto
soggettivo, ossia attribuendo al titolare del diritto un potere e gravando tutti gli
altri di un simmetrico divieto di non interferire nel suo esercizio.
In realtà, questo paradigma vale solo per le c.d. res corporales (e per i
diritti monopolistici sui c.d. beni immateriali: diritto d’autore, brevetto, segni
distintivi, ecc.), dove il diritto fa luogo ad attribuzioni esclusive e permanenti.
Ma al di fuori di questo ambito non vige affatto un regime di assoluta
indifferenza giuridica, bensì una pluralità di schemi attributivi, che danno luogo
ad attribuzioni precarie e/o concorrenti, le quali, tuttavia, sono fatte oggetto di
sicura tutela giuridica.
Un esempio di ciò è costituito dal regime del mercato, dove vige un
paradigma per il quale al “permesso” dell’uno si contrappone (non il divieto, ma)
il “permesso” degli altri: i comportamenti appropriativi di un operatore del
mercato subiscono la concorrenza dei comportamenti appropriativi degli altri
operatori, senza, però, che questo significhi che l’attività appropriativa di un tal
operatore non sia giuridicamente protetta verso l’agire concorrente degli altri.
E un altro esempio, altrettanto eloquente, è dato dal c.d. lucro cessante:
esso dipende, evidentemente, da attività di scambio con altri, ma non si dà alcun
“diritto” a che questi “altri” concludano tali scambi dai quali possa scaturire un tal
utile; il c.d. lucro cessante consiste, perciò, in una mera chance di appropriazione
o - più esattamente - nella “libertà” di perseguire un guadagno che non integra,
però, un “diritto” verso i soggetti che dovrebbero permetterne la realizzazione; e
tuttavia la sua risarcibilità è espressamente sancita dall’art. 1223 cc.
Il vero è, più in generale, che nei sistemi giuridici moderni la libertà, e
cioè il “permesso” di fare e di non fare, si da come generale dispositivo
attributivo: in essi, è suscettibile di appropriazione, e perciò costituisce una
risorsa giuridica suscettibile di attivare la funzione conservativa della
responsabilità, ogni utilità, ogni valore possa trarsi dal un qualsiasi esercizio del
“permesso”, ossia del potere generale di fare e di non fare.
Questo, se si vuole, si può anche rappresentare dicendo che, accanto alla
forma dei diritti soggettivi che assicura attribuzioni esclusive e permanenti, il
sistema giuridico assolve alla sua funzione di regolare l’attribuzione e
l’appropriazione delle risorse mediante altre “situazioni soggettive” che si
possono dire concorrenti e/o precarie, a misura che i poteri appropriativi da esse
conferiti ai privati presentano, per l’appunto, carattere concorrente e/o precario,
concorrente, a misura che non escludono l’esercizio di analoghi poteri
appropriativi di altri, e/o precario, a misura che l’appropriazione attuale di
un’utilità da parte di un soggetto esclude che altri soggetti ne rivendicare o
possano impedire il godimento ma non esclude che tali altri soggetti gli subentrino
non appena si interrompa il suo agire appropriativo. Ma quel che conta è, però,
che siano chiare le coordinate normative sulla base delle quali tali “situazioni
soggettive” si determinano (che non consistono tanto in espresse previsioni
normative ma nelle implicazioni appropriative già insite nel principio di libertà) e
la latitudine che esse di conseguenza assumono (che copre, in potenza, l’intero
spazio di ciò che, seppur implicitamente, può dirsi giuridicamente permesso,
lecito, l’intero campo dell’agere licere).
Da questo modo di operare della funzione attributiva nei sistemi giuridici
moderni scaturiscono i seguenti corollari:
(a) salta il limite tradizionale del diritto soggettivo in quanto forma
esclusiva dell’attribuzione;
(b) salta anche il venerabile assioma secondo cui non si da attribuzione
se non in forza di una norma espressa che la preveda;
(c) il “permesso” anche implicito, la libertà, acquisisce, in potenza, un
valore normativamente attributivo;
(d) la sfera giuridica personale di ciascuno va oltre la ricchezza
appropriabile attraverso l’uso e lo scambio delle “cose” fatte
oggetto di attribuzioni monopolistiche (= diritti assoluti, reali e
personali, e diritti sulle c.d. opere dell’ingegno) e fin anche oltre la
ricchezza appropriabile attraverso il fare altrui dovuto (= diritti di
credito),
(e) ed include anche tutto il valore d’uso e di scambio appropriabile
attraverso l’esercizio della propria libertà, ossia attraverso il fare
proprio “permesso” sebbene non garantito da un simmetrico
obbligo altrui di astenersi da un fare analogo (ad es.: libertà di
impresa e di concorrenza, ecc.) e il fare altrui comunque
“appropriato/appropriabile” sebbene in forme non giuridicamente
coercibili (ad es.: clientela, ecc.);
(f) sicchè costituisce risorsa giuridica ed è oggetto della funzione
attributiva tutto il valore ricavabile dal proprio (e dall’altrui) potere
generale di fare e di non fare.
Dunque, là dove si crede che ci sia solo un mero interesse di fatto, in
realtà c’è sempre un potere appropriativo conferito dall’ordinamento giuridico e
si pone sempre, perciò, un problema di conservazione delle utilità acquisibili
attraverso il suo esercizio.
3.2.- Il secondo pregiudizio, cui ancor oggi, per lo più, soggiace l’analisi
dei problemi della responsabilità civile, è quello secondo cui l’ingiustizia del
danno consiste in un’unica questione: quella - che rima si è esaminata - della
appartenenza del valore distrutto a chi ne richiede il risarcimento.
In realtà, le cose non stanno proprio così.
Se non è vero che solo la lesione dei diritti soggettivi (assoluti) trovi tutela
nel rimedio aquiliano, è anche vero, però, che non ogni danno scaturente dalla
perdita di un valore o di un’utilità individualmente appropriabile possa ritenersi
sempre giuridicamente risarcibile.
Il problema dell’ingiustizia si disarticola, infatti, in due distinti
interrogativi:
- il primo - come si è visto - è inteso a verificare l’appropriabilità del valore
distrutto da parte di chi ne ha subito la perdita,
- il secondo, invece, è rivolto a stabilire se il valore perduto risulta
giuridicamente protetto verso il tipo di aggressione cui è ascrivibile la sua
distruzione.
Segnatamente, il primo interrogativo concerne - come si è visto - la pertinenza
del danno ad un interesse, ad una potere appropriativo che rientri nella sfera
giuridica del danneggiato, ossia concerne l’accertamento di quello che, nel
linguaggio della tradizione, era detto il carattere contra jus del danno.
Ma perché la lesione di un tale interesse, di un tal potere appropriativo possa
dar luogo al risarcimento occorre, ancora, un secondo vaglio inteso a verificare
se la protezione di tale interesse, di tale potere si desse anche nei confronti del
danneggiante e del comportamento di questi che lo ha pregiudicati.
3.3.- A tale secondo problema corrisponde l’accertamento di quello che, nel
linguaggio della tradizione, era detto il carattere sine jure del danno. E la
soluzione di tale ulteriore problema dipende dalle diverse forme che i conflitti
aquiliani possono assumere a ragione della loro stessa struttura.
In generale, i conflitti aquiliani risolvono problemi di coesistenza: essi,
infatti, dipendono da interferenze tra la sfera garantita ad un soggetto e l’attività di
un altro soggetto che, di per sé, è ordinariamente reputata dal diritto del tutto
lecita e permessa.
I conflitti aquiliani si caratterizzano, perciò, come conflitti tra una sfera
soggettiva e un’altrui attività di per loro compatibili che, solo sotto determinate
condizioni, si rendono incompatibili.
Ciò fa sì che tali conflitti non possano essere regolati attraverso un dispositivo
simmetrico che correli al costante potere dell’uno il divieto assoluto dell’altro.
Essi, piuttosto, possono essere regolati solo attraverso criteri di gerarchizzazione
relativa, ossia attraverso criteri che facciano prevalere l’istanza conservativa
(inerente alla sfera interferita) o l’istanza permissiva (propria dell’attività
interferente) a seconda delle condizioni in cui si verifica l’interferenza che è
esitata in danno.
Segnatamente un criterio siffatto è strettamente relativo ai tipi di problemi da
cui scaturisce l’incompatibilità di quel che risulta ordinariamente compatibile.
La ordinaria compatibilità tra sfera interferita e attività interferente è
determinata:
- o dal fatto che esse normalmente non interferiscono (ad es.: portare in
braccio un vaso pregiato appena acquistato e fare jogging);
- o dal fatto che, al contrario, la loro interferenza è assolutamente
fisiologica, cioè prevista e voluta dall’ordinamento, poiché la sua
produttività sociale compensa il sacrificio delle posizioni individuali
interferite (ad es., concorrenza tra imprenditori).
Per conseguenza la loro incompatibilità può discendere:
- o dal fatto che ricorrono occasionalmente circostanze che determinano un
rischio di interferenza che in loro assenza non si darebbe (ad es.: fare
jogging dinanzi l’uscita di un grande magazzino durante la vigilia di
natale);
- o dal fatto che l’interferenza programmata assume modalità bandite, ossia
modalità per le quali cessa di essere socialmente produttiva e diviene,
invece, socialmente improduttiva (ad es.: fare concorrenza in modo sleale).
Donde una duplice struttura dei conflitti aquiliani:
(a) quella dell’incompatibilità occasionale; e
(b) quella dell’incompatibilità modale.
A questi due distinti tipi di incompatibilità si riconnettono tipi di problema
diversi, che richiedono criteri differenti di soluzione:
(a) L’incompatibilità occasionale pone il problema della congiuntura di
tempo e/o di luogo che rende possibile l’interferenza, ossia delle
circostanze che rendono rischioso ciò che ordinariamente non lo è; essa,
quindi, pone un problema di rischio;
(b) L’incompatibilità modale pone il problema delle forme che rendono
l’interferenza inaccettabile, incoerente rispetto allo scopo per cui è
promossa dal sistema giuridico; essa pone, perciò, un problema di
disfunzionalità sistemica.
Per conseguenza:
(a) I problemi di rischio, posti dall’incompatibilità occasionale, vanno risolti
con criteri di amministrazione del rischio intesi a discriminare situazioni
di rischio tollerabili e situazioni di rischio intollerabile, quali sono, ad es., i
criteri della colpa e del c.d. rischio d’impresa;
(b) I problemi di disfunzionalità, posti dall’incompatibilità modale, vanno
risolti con criteri di dimensionamento funzionale delle interferenze intesi a
distinguere conflitti produttivi da conflitti improduttivi, quali, ad es., i
criteri del dolo, della scorrettezza professionale, ecc.
Tutto questo cambia radicalmente il modo nel quale sono solitamente affrontati
i problemi dell’ingiustizia del danno:
- Nessuno di tali problemi si risolve attribuendo al requisito dell’ingiustizia
questo o quel significato o evocando la Costituzione e il principio di
solidarietà;
- Tutti tali problemi, invece, dipendono dalla loro impostazione secondo il
paradigma che si è esposto e che prevede:
(a) la disarticolazione del giudizio aquiliano in due distinti problemi: “è il
valore distrutto attribuito al danneggiato?” e “è tale valore protetto anche
verso l’attività che ne ha provocato il danneggiamento?”
(b) l’impostazione di tale primo problema secondo il dispositivo generale
della funzione attributiva che assume la libertà, il potere generale di fare a
forma generale dell’appropriazione privata delle risorse;
(c) l’impostazione di tale secondo problema secondo i dispositivi discendenti
dalla struttura, rispettivamente, dei conflitti occasionali e dei conflitti
modali.
Se si vuole, si può anche dire, allora, che l’”ingiustizia” dl danno dipende da
un giudizio comparativo tra la posizione del danneggiato e quella del
danneggiante. Ma purchè siano assolutamente chiare due cose: la prima è che tale
comparazione è integralmente racchiusa in una cifra propriamente sistematica,
ossia in una cifra che non richiede alcun riferimento a valori meta-positivi e che
non interpella in alcun modo il sentimento di giustizia dell’interprete o la sua
sensibilità verso il sentire sociale diffuso ma solo la sua capacità di comprendere
le rationes del sistema giuridico e di enuclearne in modo adeguato i principi; la
seconda è che tale giudizio comparativo non può che svilupparsi secondo il
paradigma prima illustrato e cioè assumendo la latitudine dell’intero campo della
libertà, dell’agir lecito e articolandosi nei due schemi dei conflitti occasionali e
dei conflitti modali.
3.4.- Rimane, allora, da chiedersi a quali condizioni un conflitto aquiliano
rientra nello schema dei conflitti occasionali o in quello dei conflitti modali.
In linea generale, la riconducibilità di un’ipotesi concreta di danno all’uno o
all’altro tipo di conflitto dipende, essenzialmente, dal modo in cui si connotano
rispettivamente la sfera interferita e l’attività interferente e, soprattutto, dal modo
in cui il diritto, reciprocamente, le tratta.
Il modo in cui si connota la sfera interferita vale a determinare, almeno in linea
di massima, il tipo di aggressione alla quale, normalmente, essa risulta esposta, lo
schema di danneggiamento secondo il quale, ordinariamente, essa può essere
pregiudicata: ad es., i tipi di danneggiamento cui sono esposti un auto o l’integrità
fisica di una persona sono diversi dai tipi di aggressione cui sono esposti la
reputazione o un diritto di credito.
Il modo in cui si connota la sfera interferita, dunque, incide, in modo rilevante,
sul tipo di problema proposto dalla sua lesione e concorre a farlo ricondurre
nell’un tipo di conflitto aquiliano o nell’altro.
A sua volta, il modo in cui il diritto tratta l’attività interferente rispetto alla
sfera interferita può, in egual misura, incidere sulla strutturazione del tipo di
problema che la lesione prospetta: ad es., il tipo di problema che propone il
danneggiamento subito dal proprietario di un auto ad opera di un ciclista appare
del tutto diverso dal tipo di problema che propone il pregiudizio arrecato al
proprietario di un fondo da un’espropriazione illegittima o dall’illegittimo diniego
di un permesso di costruire, così come diverso appare il tipo di problema suscitato
dal danno arrecato ad un fondo dallo sconfinamento di un escavatore dal tipo di
problema proposto dal danno subito dal proprietario a causa della emulativa
costruzione di un muro ad opera del proprietario del fondo limitrofo.
Il modo in cui il diritto configura l’attività interferente e, soprattutto, il modo in
cui la tratta in riferimento alla sfera interferita può, dunque, concorrere, in misura
decisiva, a determinare il tipo di conflitto aquiliano al quale ciascun caso di
danneggiamento va ascritto.
Su questa base, si possono prospettare le seguenti alternative:
(a) La sfera interferita può connotarsi:
- per la sua fisicità/materialità e per il carattere, per lo più, esclusivo e
permanente dell’attribuzione che in quest’ambito le è propria;
- per la sua spiritualità/immaterialità e per il carattere, per lo più,
concorrente e/o precario dell’attribuzione che in questo diverso ambito le
compete;
Su questa base essa può, rispettivamente, distinguersi in:
(a/1) “sfera personale fisica” (integrità psico-fisica, salute, ecc.) e “sfera
patrimoniale materiale” (res corporales, ecc.)
(a/2) “sfera personale spirituale” (attributi della personalità, ecc.) e “sfera
patrimoniale immateriale” (credito, aspettative, poteri organizzativi, libertà
appropriative, ecc.)
(b) L’agire interferente, a sua volta, può essere ascritto dal diritto:
(b/1) all’esercizio della libertà general-generica;
(b/2) ad un potere specifico di interferenza nelle altrui sfere giuridiche
normativamente previsto.
In linea di massima, tra le superiori alternative si rinviene una connessione
fenomenologica, nel senso che si riscontra, per lo più, che :
(a) i conflitti occasionali, generalmente, investono quell’ambito ove la sfera
interferita sia connotata dalla fisicità/materialità e l’agire interferente sia
ascrivibile all’esercizio della libertà general-generica;
(b) i conflitti modali, generalmente, investono quell’ambito ove la sfera
interferita sia connotato dalla spiritualità/immaterialità e l’agire
interferente sia ascrivibile all’esercizio di un potere specifico di
interferenza.
Segnatamente, il fatto che i conflitti occasionali siano tendenzialmente
circoscritti al primo ambito dipende dalla circostanza che la materialità della
sfera interferita e la genericità dell’attività interferente determinano, di norma, lo
schema di danneggiamento, il tipo di “fatto dannoso” che la responsabilità è
chiamata a fronteggiare, nel senso che il danno si da, ordinariamente, come
deterioramento della “cosa” di uno a cagione dell’ “agire distruttivo” di un altro.
Rispetto ad un tal tipo di “fatto dannoso” la responsabilità non può che
dipendere dal rischio che si diano le condizioni particolari che rendono di fatto
distruttivo un agire altrimenti innocuo e perciò rientrante nell’esercizio della
libertà general-generica.
I conflitti, che si originano dalla lesione di quell’ambito della sfera
soggettiva connotato dalla fisicità/materialità e che corrispondono alle tradizionali
ipotesi del damnum corpore corpori datum, pongono, perciò, esclusivamente
problemi di imputazione dell’evento dannoso secondo i criteri della colpa o del
rischio: la risarcibilità di un tal pregiudizio, normalmente, dipenderà solo dalla
intollerabilità del rischio creato dal comportamento che in concreto lo ha causato
(= colpa) o dell’attività nell’ambito della quale si è verificato (= rischio)..
Rientrano in tale schema aquiliano:
- i casi di lesione della “sfera personale fisica” (c.d. diritti alla salute,
all’integrità fisica, ecc.);
- i casi di lesione della “sfera patrimoniale materiale” (c.d. diritti reali, diritti
monopolistici, ecc.).
Precisamente, la “natura” di tali beni esclude, in linea di massima, che si diano
nell’ordinamento specifici poteri di interferenza: poteri siffatti si risolverebbero,
infatti, in inammissibili poteri di “distruggere”, di ledere materialmente l’altrui
persona, le altrui cose, ecc.
Da questo, verosimilmente, discendeva la vecchia dottrina dell’illecito, che
rappresentava la responsabilità come limitata alla lesione dei diritti soggettivi
assoluti (= diritti reali e diritti all’integrità fisica): la “corporeità” di tali diritti, la
loro inerenza a res faceva sì che il risarcimento del loro pregiudizio non
proponesse altri problemi che quello della imputabilità della loro lesione alla
colpa del danneggiante e che la responsabilità di quest’ultimo non potesse essere
esclusa che dalla presenza delle tradizionali cause di giustificazione (stato di
necessità, legittima difesa, consenso della persona offesa).
Così, in effetti, vanno per lo più le cose in presenza di un danno che
investa la “sfera personale fisica” o la “sfera patrimoniale materiale”.
Ma non è affatto detto che lo schema del damnum corpore corpori datum
sia necessariamente il solo modo nel quale quest’ambito della sfera soggettiva sia
esposto al pregiudizio di altrui comportamenti ed attività.
Può anche darsi, infatti, che, ad es., la sfera patrimoniale materiale sia
esposta a poteri, non propriamente “distruttivi”, ma “ablativi” (ad es.,
espropriazione per pubblica utilità) o “preclusivi” (ad es., esercizio dei poteri
proprietari di un vicino), dipendenti dall’attribuzione ad altri di specifici poteri di
interferenza in tale sfera ordinariamente “assoluta” (ad es., poteri ablativi della
P.A., poteri proprietari del vicino, ecc.).
In questi casi, allora, il conflitto avrà carattere non più occasionale ma modale,
giacchè si incentrerà non sul rischio di concomitanze dannose ma sulle modalità
di esercizio di siffatti poteri di interferenza. Sicchè la responsabilità dipenderà dal
modo eventualmente “bandito” o “socialmente improduttivo” nel quale la sfera
patrimoniale di taluno sarà stata interferita da atti ablativi (ad es., illegittimità del
procedimento espropriativo della P.A.) o da comportamenti che ne precludono in
tutto o in parte il godimento (ad es., carattere emulativo degli atti compiuti dal
proprietario limitrofo). Sicchè la responsabilità non dipenderà dalla misurazione
del rischio creato ma dall’implemetazione di criteri intesi a garantire la
rispondenza dell’interferenza alle ragioni che la giustificano (ad es.,
l’inosservanza del procedimento amministrativo in quanto misura procedurale di
garanzia del proprietario, il fine di nuocere dell’art. 833, ecc.)
Esposta, invece, a conflitti, per lo più modali, è, innanzitutto, la “sfera
personale spirituale” (= diritti all’onore, alla reputazione, alla riservatezza,
all’identità personale, sessuale, ecc., all’immagine, ecc.).
La struttura incorporea di tale versante della sfera personale fa sì che essa,
ordinariamente, possa essere lesa solo da comportamenti che rendano pubblico o
falsino ciò che tale sfera riserva all’individuo, ossia da “comportamenti
divulgativi o distorsivi” che rendono pubbliche notizie, giudizi, ecc. concernenti la
vita di altri o ne alterino l’apparenza pubblica. Ma tali comportamenti, per lo più,
rientrano nell’esercizio di poteri specifici di interferenza giuridicamente previsti e
protetti per la loro utilità sociale (= diritto di cronaca, di manifestazione del
pensiero, di ricerca scientifica, ecc.). Sicchè la responsabilità, di volta in volta,
dipenderà dal modo eventualmente “bandito” nel quale la sfera spirituale di taluno
sia stata interferita dall’agire divulgativo o distorsivo di altri e sarà, perciò,
rimessa all’implementazione di criteri che ne segnino l’esorbitanza rispetto
all’utilità sociale che diversamente lo giustificherebbe, quali quelli della
correttezza e della c.d. colpa grave (ad es., correttezza professionale, continenza,
completezza dell’informazione, imparzialità, ecc.).
Ricadono, ancora, nell’ambito dei conflitti modali le lesioni della “sfera
patrimoniale immateriale“, costituita dal fare altrui (diritti di credito, aspettative
giuridicamente protette, ecc.) o dal fare proprio (libertà appropriative, quali quelle
che ineriscono all’iniziativa economica, alla libertà negoziale, ecc.; libertà
organizzative, quali quelle che ineriscono alla gestione del patrimonio, ecc.).
Rispetto a questa sfera, le fenomenologie di danneggiamento, infatti, non
dipendono da occasionali concomitanze ma si producono necessariamente in un
contesto relazionale (= normalmente il mercato ed i rapporti che al suo interno si
sviluppano, ma non solo), ove l’interferenza è giuridicamente programmata e
protetta (ad es., libertà di concorrenza, libertà contrattuale, ecc.) e, a volte,
addirittura suscitata dallo stesso danneggiato (ad es., richiesta di informazioni
bancarie, finanziarie, commerciali, ecc.).
Siffatta sfera patrimoniale immateriale, perciò, risulta, ordinariamente, esposta
ad un “agire distrattivo” del fare altrui (dovuto), ossia da comportamenti atti a
distogliere il fare altrui dal destinatario cui sarebbe stato o avrebbe dovuto essere
rivolto (ad es., sviamento della clientela, induzione all’inadempimento, doppia
alienazione immobiliare accompagnata da una trascrizione del secondo acquirente
anteriore a quella del primo che impedisce a questi di conseguire l’atteso effetto
traslativo, ecc.) o ad un “agire disinformativo”, ossia atto a disorientare l’esercizio
del potere organizzativo dell’altrui sfera patrimoniale (ad es., informazioni di
cortesia errate, informazioni commerciali non corrispondenti alla realtà, esercizio
di poteri di controllo sulla borsa che manchino i relativi obbiettivi informativi del
pubblico, ecc.).
Ora, ordinariamente accade che siffatti comportamenti pregiudizievoli
rientrino nell’esercizio di specifici poteri giuridici di inferenza attribuiti dal diritto
in vista della loro generale utilità sociale (ad es.: esercizio della libertà di
concorrenza nel caso del danno concorrenziale e/o della libertà contrattuale
correlata al dovere di non ingerenza nell’economia del debitore nel caso della
lesione del credito mediante induzione all’inadempimento, affidamento
appositamente istituito dai sistemi di pubblicità immobiliare, relazioni di cortesia,
circuiti dell’informazione commerciale, funzioni di controllo dei mercati
finanziari nel caso del danno da c.d. false informazioni ecc.).
Dunque, rispetto alle lesioni di siffatta sfera patrimoniale immateriale ad opera
di simili tipi di comportamento il problema della responsabilità non nasce dal
rischio di interferenza bensì dal modo eventualmente “bandito” o “socialmente
improduttivo” nel quale essa si sviluppa, e deve, perciò, essere risolto sulla base di
criteri che marchino il travalicamento delle funzioni e dei limiti in ragione dei
quali i relativi poteri di interferenza sono ritenuti dall’ordinamento socialmente
giustificati, quali quelli del dolo, della mala fede e della c.d. colpa grave (ad es., la
slealtà della concorrenza, il dolo nell’induzione all’inadempimento, l’aperta
preordinazione della seconda vendita e della sua trascrizione al fallimento
dell’acquisto immobiliare del primo acquirente, il carattere doloso dell’erroneità
di informazioni fornite per cortesia, il carattere interessato della falsità di
informazioni bancarie o commerciali, la smaccata noncuranza degli interessi dei
risparmiatori nell’ esercizio dei poteri di controllo sulla borsa, ecc


modo, determinata da “regole”, da criteri che ne orientano il
comportamento; non tutte queste regole, però, hanno carattere
giuridico; molte appartengono al campo dell’etica, del costume,
dell’agire economico, ecc.; è, perciò, determinante rinvenire un
criterio che con sicurezza discerna tra regole giuridiche e regole
che non presentano tale carattere; tale distinzione, infatti, non
solo determina l’oggetto dello studio del diritto ma, soprattutto,
appare decisiva per individuare quei comportamenti sui quali
può insorgere un conflitto giuridico ed attivarsi un
procedimento giudiziario volto a dirimerlo da quelli che, invece,
trovano sanzione su piani del tutto diversi (quali, ad es., la
condanna morale, il disdoro sociale, ecc.);
La seconda esigenza è quella di cogliere la c.d. natura del
diritto, poiché la comprensione di ciò che è il diritto appare
decisiva per trattarlo nel modo più adeguato: segnatamente, le
regole giuridiche per essere applicate richiedono un insieme di
operazioni, che va sotto il nome di interpretazione del diritto;
tali operazioni possono essere concepite e praticate in modo
diverso; la comprensione della c.d. natura del diritto si mostra
decisiva per orientare il modo di concepire e praticare tali
operazioni.
2
Grossomodo, tutte le più comuni definizioni del diritto, alla
fine, puntano su quattro elementi fondamentali:
(a) il primo elemento è che il diritto è un insieme di
comandi, più precisamente un insieme di comandi che
per avere carattere generale (cioè per rivolgersi a tutti e
non solo ad alcuni: ad es., l’art. 2043 si rivolge a
“chiunque” ...) ed astratto (cioè per prevedere schemi
di azione che prescindono da determinazioni concrete
(ad es., lo stesso art. 20043 si riferisce ad ogni
comportamento che, per l’appunto, in generale causi ad
altri un danno), prendono il nome di norme;
(b) il secondo elemento è che tali norme si distinguono da
tutte le altre regole per il fatto che la loro osservanza è
garantita dalla forza dello Stato e, comunque da una
sanzione la cui irrogazione è riservata ad un apparato,
l’ordine giudiziario, che, in ultima istanza, dispone della
forza pubblica;
(c) il terzo elemento è che tali norme sono poste da
un’autorità pubblica legittimata a porle in forza di
altre norme che prevedono il procedimento di
formazione delle leggi e che, perciò prendono il nome
di norme di produzione;
(d) il quarto elemento è che tali norme sono poste al fine
di assicurare la pace tra i cittadini ed istituire tra essi un
ordine giusto.
A queste definizioni si fa seguire la distinzione tra il diritto
pubblico, che concerne l’organizzazione dello Stato e degli altri
Enti pubblici, i loro reciproci rapporti ed i rapporti tra essi ed i
cittadini, ed il diritto privato, che, invece, concerne i rapporti
reciproci tra gli individui. Con queste ulteriori differenze:
(a) che il diritto pubblico appare improntato al principio di
supremazia, al c.d. jus imperi e che le sue norme si
presentano, perciò, come essenzialmente inderogabili;
(b) mentre il diritto privato appare improntato al principio
di eguaglianza e le sue norme si presentano come, per
3
lo più, derogabili, e cioè suscettibili di essere sostituite
da regolamentazioni diverse pattuite dai privati.
Negli elementi così solitamente chiamati a comporre la
definizione del diritto si annida un principio di contraddizione.
La definizione di diritto postula un criterio di
riconoscimento, ossia un criterio che, al di là dell’elemento del
comando e della sanzione, valga a discriminare quali tra i molti
comandi che possono mostrarsi sanzionati dalla forza facciano
parte del sistema giuridico, ossia un criterio che – per intendersi
– valga a distinguere tra il comando della legge e, ad es., l’ordine
arbitrario di un esercito invasore o di un funzionario che usurpa
funzioni non proprie.
Questo criterio di riconoscimento, per l’appunto, è indicato
in un duplice riferimento:
(a) nella provenienza del comando da un’autorità
legittimata a porlo secondo un procedimento
determinato dalle c.d. norme di produzione e
(b) nella corrispondenza del comando ad un ordine
giusto.
Tale duplice riferimento implica, però, criteri di
riconoscimento assolutamente diversi e, di per loro,
contraddittori.
Il riferimento ad un’autorità legittimata offre un criterio di
riconoscimento, che si può dire formale: è diritto, costituisce
norma giuridica solo quel comando che è prodotto in una
forma determinata, cioè in conformità ad una norma superiore
che prevede chi e come può produrre le leggi.
Il riferimento ad un ordine giusto suggerisce, invece, un
criterio di riconoscimento materiale: è diritto, costituisce
norma giuridica solo quel comando che si mostra conforme alla
giustizia, cioè ad una giusta ed equa soluzione del conflitto che
la norma è chiamata a disciplinare e risolvere.
Non è affatto detto, però, che questi due criteri si
sovrappongano: ad es., le leggi razziali promulgate durante il
periodo fascista rispondevano certamente ad un criterio formale
di riconoscimento, poiché erano state emanate da un’autorità
che deteneva il potere di legiferare ed in conformità alle norme
4
che disciplinavano il procedimento legislativo, ma non
corrispondevano certo ad un criterio materiale di
riconoscimento, a misura che ingiustamente discriminavano il
trattamento dei cittadini sulla base della loro appartenenza ad
una razza piuttosto che ad un’altra.
Questo doppio riferimento, perciò, sembra racchiudere
una ambiguità del diritto:
- per un verso, il diritto sembrerebbe voler affidare il proprio
riconoscimento ad un criterio non solo estrinseco e formale ma
soprattutto previsto e determinato di volta in volta da esso
stesso: è diritto solo quello che il diritto stesso, attraverso le
norme sul procedimento di formazione delle leggi, di volta in
volta riconosce per tale
- per un altro verso, il diritto sembrerebbe, invece, ambire ad un
valore che, non essendo rimesso all’arbitrio del legislatore,
presenta carattere universale: il diritto dà corpo e vigore alla
giustizia.
2.- Il sistema delle fonti e la sua ambiguità.
L’ambiguità, che si coglie nella stessa definizione di
diritto, ritorna puntualmente nelle rappresentazioni del sistema
delle fonti.
Si spiega, al riguardo, che le fonti del diritto sono
molteplici e che esse si dispongono in un rigido ordine
gerarchico:
1) la Costituzione;
2) i Trattati internazionali e le disposizioni emanate
dagli organi soprannazionali dotati di potere
normativo (soprattutto i Regolamenti
comunitari emanati dagli organismi comunitari
sulla base del Trattato C.E.E. e ora U.E.);
3) le leggi ordinarie dello Stato;
4) le leggi regionali;
5) i regolamenti
6) e (ormai largamente svalutati) gli usi o
consuetudine.
5
La Costituzione è la Legge fondamentale che istituisce e regola la
comunità nazionale. Essa determina i principi fondamentali
dell’ordinamento giuridico italiano, determinando i diritti ed i doveri
dei cittadini, l’organizzazione dello Stato, gli organi supremi, il loro
poteri, le loro conseguenti competenze ed i loro reciproci rapporti, e
il procedimento di formazione delle leggi ordinarie.
Caratteristica della Costituzione è che essa non solo disciplina i
rapporti tra i cittadini e tra questi e le pubbliche autorità ma che
vincola lo stesso Parlamento determinando non solo le regole che
questo deve osservare per esercitare il potere legislativo ma anche le
direttive ed i principi ai quali la legislazione ordinaria da questo
prodotta deve uniformarsi.
La conformità delle Leggi ordinarie alla Costituzione è sottoposta al
giudizio della Corte Costituzionale e la loro eventuale difformità è da
questa sanzionata con la dichiarazione di incostituzionalità che ne
provoca l’annullamento e fa loro perdere retroattivamente il carattere
obbligatorio.
Le Leggi ordinarie sono costituite, innanzitutto, dai Codici (civile, di
procedura civile, penale, di procedura penale, ecc.), che disciplinano
in modo sistematico e dettagliato interi settori dei rapporti tra i
cittadini e tra questi e lo Stato. Già fin dall’inizio del secolo scorso,
però, la crescente complessificazione dela società e dei rapporti tra i
cittadini e tra questi e lo Stato ha dato luogo alla emanazione non solo
di leggi modificative delle regole codicistiche, c.d. novelle, ma
soprattutto di una vastissima costellazione di Legislazioni speciali, che
hanno introdotto nell’ordinamento giuridico principi regolativi diversi
ed innovativi rispetto a quelli ordinati nei codici, dando vita alla
formazione di interi sotto-sistemi dell’ordinamento chiamati a
regolare settori nevralgici delle relazioni sociali (diritto del lavoro,
diritto delle locazioni, diritto agrario, diritto industriale, diritto
fallimentare, ecc.).
Alle Leggi ordinarie nazionali si sono, poi, affiancate le Leggi
regionali, ossia le leggi emanate dalle Regioni nell’ambito della
competenza, concorrente o esclusiva, loro assegnata
dall’Ordinamento costituzionale. Tali leggi sono, per lo più,
sottoposte al rispetto non solo della Costituzione ma anche, nelle
materie di competenza concorrente, della legislazione statale e non
possono essere in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di
altre regioni. All’osservanza di questi limiti presiede la Corte
6
costituzionale, la quale, perciò, è deputata a rilevarne l’eventuale
violazione e a dichiararne la conseguente illegittimità.
I Regolamenti sono emanati dal potere esecutivo (soprattutto dai
Ministri competenti) e dalle regioni (a seconda del livello cui sia
assegnata la competenza primaria) e sono rivolti a prevedere regole di
dettaglio necessarie all’applicazione delle leggi nazionali e regionali.
Per conseguenza essi si pongono in posizione di subordinazione
rispetto alle leggi che sono destinati ad implementare e la loro
eventuale contrarietà a tali leggi ne determina l’invalidità, che può
essere dichiarata dai giudici ordinari.
Questo sistema è ulteriormente complicato dall’adesione dell’Italia ai
Trattati internazionali e, soprattutto, dalla sua adesione alla Comunità
Economica Europea, prima, e all’Unione Europea, poi. Tutti i trattati
internazionali producono per lo Stato obblighi che richiedono, per lo
più, di essere attuati attraverso l’emanazione di leggi ordinarie. Ma il
Trattato istitutivo della C.E.E., prima, e dell’U.E., dopo, prevede
molto di più: oltre ad obbligare gli Stati-menbri all’emanazione di
Leggi di attuazione delle Direttive comunitarie emanate dai
propri organismi, prevede anche l’attribuzione agli organi dell’Unione
di un vero e proprio potere legislativo diretto che si esprime
nell’emanazione di Regolamenti comunitari immediatamente
vincolanti per i cittadini degli Stati-menbri e per i giudici nazionali.
Trattato U.E. e Regolamenti, peraltro, godono, nel sistema delle fonti,
di una posizione – per così dire – privilegiata. Al Trattato spetta un
rango di valore sostanzialmente costituzionale: da un lato, i suoi
principi e le sue regole non sono sotto-ordinati a principi e regole
della Costituzione e non sono sottoposti al sindacato della Corte
costituzionale (salvo che per un’eventuale violazione dei diritti
fondamentali); dall’altro, le leggi nazionali ordinarie da essi difformi
possono essere impugnate innanzi alla Corte di giustizia europea e
colpite dalla sanzione della disapplicazione. I Regolamenti comunitari,
a loro volta, si prospettano come sopra-ordinati rispetto alle leggi
ordinarie nazionali, al punto che anche la conformità delle leggi
nazionali a tali regolamenti è sottoposta al giudizio della Corte di
giustizia europea e la loro difformità è sanzionata con la
disapplicazione.
Eccentrica rispetto a tale sistema è la Consuetudine. Si suol dire che
l’esistenza di una consuetudine dipenda dalla ricorrenza di due
requisiti: (a) da un elemento materiale, costituito dalla esistenza di una
pratica uniforme e costante, ossia dalla circostanza che
uniformemente e costantemente i cittadini conformino il loro
7
comportamento ad una regola non scritta e (b) da un elemento
psicologico costituito dalla circostanza che i cittadini conformino i
loro comportamenti a tale regola non scritta in forza della
convinzione che la sua osservanza sia obbligatoria. La consuetudine è,
in ogni caso, subordinata alla legge formale, sicchè non è possibile
una consuetudine contra legem né è possibile l’abrogazione di una
legge ad opera di una consuetudine ad essa difforme.
Tale sistema delle fonti appare, dunque, ispirato ad un
criterio rigidamente formale, che determina l’appartenenza di
una norma al sistema giuridico sulla base:
(a) della sua provenienza da un’autorità legittimata, ossia
rispettivamente, l’Assemblea costituente, la
deliberazione parlamentare di adesione ad un Trattato
internazionale, il Parlamento, le Assemblee regionali, i
Ministeri, ecc., e
(b) della sua conformità ad un procedimento
normativamente previsto, essenzialmente dalla
Costituzione.
Ma la rigidità del criterio formale che ispira tale sistema
delle fonti è vieppiù garantita dall’ordine gerarchico secondo il
quale appaiono strutturati i rapporti reciproci tra le diverse
fonti. Ciascuna fonte trae legittimità dalla sua conformità alla
fonte di grado immediatamente superiore: i Regolamenti dalla
loro conformità alle leggi, nazionali o regionali, cui sono
chiamati a dare determinazione operativa; le Leggi, a loro volta,
traggono legittimità dalla loro conformità alla Costituzione ed ai
Trattati ed alla normativa sulla loro base prodotta dai relativi
organismi internazionali; i Trattati traggono la loro legittimità
dall’art. 11 della Costituzione e dalla limitazione/delega che
esso permette alla sovranità nazionale.
Ma questa compattezza formale del sistema delle fonti
sembra venir meno quando si passa a considerare lo statuto
dell’interpretazione delle norme ed il ruolo della
giurisprudenza nella formazione del diritto.
Si spiega, infatti, che le norme giuridiche, per la loro
generalità ed astrattezza, non sono in grado di prevedere tutti i
8
casi della vita sui quali un giudice è chiamato a pronunziarsi e
che, soprattutto, non sono in grado di apprestare sempre
soluzioni propriamente adeguate.
Le norme giuridiche, dunque, non possono essere applicate
senza essere interpretate, cioè senza sottoporre i loro enunciati
ad un’opera di concretizzazione che ne determina l’effettiva
portata ed il reale significato.
Questa attività, nella quale propriamente consiste
l’interpretazione della legge, si assume non possa essere ridotta
– come un tempo pure si riteneva – ad un’operazione
puramente logica, ossia al c.d. sillogismo giudiziale, dove la
norma costituisce la premessa maggiore, il caso la premessa
minore e la sanzione la conseguenza. Essa, piuttosto,
obbedirebbe ad un’istanza che sta oltre e sopra le norme
giuridiche e che consiste nella giusta soluzione del caso.
Immaginare, però, che nel decidere il caso il giudice abbia
ad interrogare non tanto o non solo le norme poste ma anche
o soprattutto la giustizia, significa supporre che prima e al di
sopra delle norme poste si dia un ordine non posto di volta in
volta ma dato una volta per tutte, per l’appunto un ordine
giusto, e che, proprio per essere giusto, non può che essere
universale.
Tant’è che sempre più spesso si trova che nel sistema delle
fonti sia inserita, accanto alle fonti formali prima enumerate,
anche, quale fonte materiale, la giurisprudenza, in quanto
depositaria di quest’ordine vero e universale che sovrasta
l’ordine positivo, e per questo in qualche modo contingente,
delle leggi e che ne deve orientare la comprensione.
Questa ambiguità, che oggi attraversa le definizioni del
diritto e la teoria delle fonti, corre tra due termini: natura e
artificio, e segna l’intera storia del diritto e, in modo
particolare, l’origine stessa del diritto moderno.
Due grandi “racconti” presiedono alla nascita del diritto
moderno:
(a) Il primo “racconto”, che seppure in modo diverso può
farsi risalire a Locke e Rousseau, va sotto il nome di
giusnaturalismo moderno: agli uomini è dato un
9
ordine naturale, indipendente dalla loro volontà e
rispondente al disegno del Creatore; in quest’ordine
naturale agli individui competono diritti naturali; il
godimento di questi diritti rimane, tuttavia, precario,
esposto - com’è - alle aggressioni degli altri individui; gli
individui si danno, perciò, leggi intese a garantirsi
reciprocamente tali loro diritti naturali; queste leggi
devono, perciò, riconoscere l’ordine naturale che sono
deputate a garantire e trovano in esso il loro
fondamento e la ragione della loro obbligatorietà;
(b) Il secondo “racconto”, che si può far risalire soprattutto
ad Hobbes, va sotto il nome di positivismo giuridico:
nello stato di natura si dà solo la guerra di tutti contro
tutti; per por fine a questa guerra che porterebbe alla
distruzione totale dell’umanità gli individui creano
artificialmente lo Stato e l’ordine giuridico; il diritto è,
perciò, un artificio che istituisce e regola la società
come salvezza degli individui.
Ma oltre che dall’alternativa tra natura ed artificio
l’ambiguità del diritto sembra anche alimentata da un’altra
ambivalenza, quella tra necessità e temporalità (mutevolezza).
In fondo, secondo entrambi i “racconti” della modernità,
che si sono prima accennati, il diritto precede la società e
risponde ad una razionalità necessaria, meta-storica, che genera
le istituzioni sociali come ordine neutrale, rispettivamente, della
salvezza degli individui o della tutela dei loro diritti naturali.
Per questo aspetto, dunque, il diritto sembra precedere la
società e, soprattutto, sembra rispondere ad una universale
necessità.
Ma, al tempo stesso, l’esperienza suggerisce che il diritto
muta nel tempo e nello spazio: come scriveva Pascal, le leggi
cambiano solo attraversando un fiume o valicando una catena
montuosa o, rispetto al medesimo territorio, andando indietro
nel tempo di un certo numero di anni.
Per cui l’universale necessità che il diritto esibisce sembra, con
la medesima forza, contraddetta dalla sua determinata
mutevolezza
10
Ma interrogarsi su queste ambiguità del diritto non
risponde solo ad un bisogno di conoscenza.
Al chiarimento di queste ambiguità, infatti, appare legata
– come prima si è visto - la soluzioni di problemi cruciali per lo
stesso ordinario funzionamento del diritto: il riconoscimento
dei confini del sistema giuridico e la determinazione del sistema
delle fonti, la natura dell’attività giurisdizionale e, per
conseguenza, il rapporto tra giudice e legge.
3.- All’origine dell’ambiguità del Diritto.
3.1. Il diritto tra legge e giustizia.
Fin dalla sua origine, dunque, il diritto appare segnato
da una fondamentale ambiguità, quella per cui esso si presenta,
allo stesso tempo, come necessario/universale e come
mutevole/determinato, come Verità e come Artificio.
I termini nei quali si prospetta questa ambiguità sono
costituiti dal rapporto tra Legge e Giustizia, tra il carattere
positivo, e perciò mutevole e determinato, della Legge ed il
carattere meta-positivo, e perciò universale e necessario, della
Giustizia.
Nelle definizioni del diritto oggi prevalenti Legge e
Giustizia sembra si implichino vicendevolmente: la Legge dà
evidenza e forza alla Giustizia; la Giustizia dà fondamento e
legittimità alla Legge.
Ma questa implicazione reciproca, nei termini in cui
appare prospettata, si mostra foriera di molteplici
contraddizioni:
- per un verso, si pretende che la Legge partecipi della
Giustizia, che tragga da essa il suo fondamento e la sua
alimentazione (non solo) interpretativa: la Legge – si
dice - nasce dal bisogno di giustizia e deve essere
osservata perché mira alla instaurazione e conservazione
di un ordine giusto;
11
- per un altro verso, però, non si rinuncia a giudicare la
Legge sulla base della Giustizia e, dunque, si finisce
per ammettere che si possa dare una legge che
nonostante la sua ingiustizia non cessi di essere Legge: si
proclama, talvolta, che una Legge sia ingiusta, ma
proprio criticandola a ragione della sua ingiustizia se ne
riconosce l’obbligatorietà, la necessità di osservarla
finchè la critica non ne promuova l’abrogazione o la
modificazione.
Ma il reale punto di crisi di questo ambiguo rapporto è un
altro, e trae origine, fondamentalmente, dalle implicazioni
filosofiche della stessa idea di Giustizia.
La Giustizia postula che si dia, e sia accessibile alla
conoscenza, un ordine naturale delle società, ossia postula che,
contro quel che sembrano suggerire la storia e l’esperienza, si
dia una ragione universale dalla quale si possano desumere i
principi immutabili della convivenza tra gli uomini, dalla quale,
perciò, possa trarre alimentazione la legge positiva e sulla base
della quale questa possa essere giudicata come “giusta” o
“ingiusta”. Ma la filosofia eminente del novecento ha sancito la
crisi della metafisica, ossia dell’attingibilità di Verità universali
che si diano oltre l’esperienza, oltre la storia ed i suoi
mutamenti. E la crisi della metafisica, ossia del pensiero che
supponeva possibili l’esistenza e la conoscenza di verità che
andassero oltre ciò che appare all’esperienza e che si dà nel
tempo, ha portato con sè la crisi della possibilità di accedere ad
un fondamento incontrovertibile da cui sia consentito dedurre
un ordine necessario e una ragione universale: se non si danno più
verità incontrovertibili, da cosa mai può attingersi la conoscenza
di ciò che è giusto e di ciò che non lo è? .
Muovendo da simili premesse filosofiche, si potrebbe
pensare che l’inclusione nella definizione di diritto del
riferimento alla giustizia adempia ad una funzione di mera
legittimazione della legge e/o dei giudici: la
rappresentazione dello jus positum o del dictum del magistrato con
le parole della giustizia continuerebbe ad essere solo il modo
migliore di santificare la legge ovvero il potere di chi la produce
12
o di chi proclama di decidere in suo nome, di rimuovere la sua
origine contingente ed il suo radicamento nel potere e di
giustificare, così, l’obbligo di prestarvi obbedienza.
3.2.- Necessità e artificio nel diritto.
In realtà, c’è un modo di intendere il diritto positivo
che dà conto della sua pretesa di contiguità alla giustizia,
ossia della sua origine in un che di necessario e di pensato come
universale, senza postularne il fondamento in un Ordine
naturale o in una Ragione universale immutabili e sovraordinati
alle determinazioni della società.
E c’è un modo di intendere la Giustizia che dà conto
della sua temporalità, e cioè di come ciò che si concepisce e si
prospetta come universale possa, tuttavia, mutare nel tempo e
secondo i luoghi, e così essere impugnato per la critica della
Legge, ossia di quel che pretende di radicarsi nella medesima
universalità.
Quest'idea del diritto e della Giustizia muove dalla
considerazione di Aristotele che gli uomini, e con essi le loro
opere, sono assolutamente differenti e di per loro
incommensurabili e che, tuttavia, per entrare in rapporto tra
loro hanno bisogno di una “misura”che li renda comparabili e
consenta lo scambio sociale.
Non c’è società senza divisione del lavoro tra gli
individui che la compongono. Ciò richiede che i lavori e/o i
prodotti di ciascun individuo si scambino con i lavori e/o i
prodotti degli altri individui. Ma ciascun individuo ed ogni sua
opera o suo prodotto sono del tutto diversi dagli altri individui
e dalle loro opere e dai loro prodotti. In presenza di una tal
radicale e generale disuguaglianza non sarebbe possibile alcuno
scambio e la riproduzione sociale ne risulterebbe assolutamente
pregiudicata: come comparare e scambiare i prodotti degli
agricoltori con l’opera dei medici o le merci degli artigiani con
l’opera dei guerrieri ?
13
L’istituzione e la riproduzione di una società rendono,
perciò, assolutamente necessaria la creazione di una misura che
faccia diventare generalmente commensurabile ciò che in natura
è assolutamente incommensurabile.
L'esigenza di questa misura è universale, nel senso che
è necessaria, è di ogni società in ogni tempo. Ma la misura, che
così si richiede, è artificiale, nel senso che non si dà in natura,
che non è deducibile dalla sua stessa necessità, ma è istituita,
creata, di volta in volta, dalla stessa società.
In natura vi sarebbe solo l'incommensurabilità di
ciascun uomo ad ogni altro uomo e di ciascun suo lavoro ad
ogni altro lavoro. La misura sovrappone a questa universale
diseguaglianza un universale eguagliamento.
Quell’ambiguità che – come si è visto – colloca il diritto
tra necessità ed artificio nasce, perciò, proprio da questa
inevitabile originaria ambivalenza, cioè dall’essere il diritto
insieme assolutamente necessario (ubi societas ibi jus = non c’è
società senza ordine) e, al tempo stesso, assolutamente
artificiale (auctoritas non veritas facit legem = l’ordine non si dà in
natura, non discende dalla verità ma è creato dagli uomini, è un
loro artificio).
3.2.- Universalità e decisione politica nel diritto.
D’altronde, proprio perché non si dà in natura e viene di
volta in volta creata dalla stessa società, tale misura può essere
variamente determinata, e perciò può sempre cambiare nel
tempo e nello spazio.
La possibilità di determinare in modo diverso tale
misura fa sì che la sua determinazione implichi una riflessione,
che concerne la stessa condizione di esistenza della società, della
polis. Tale riflessione, dunque, ha, per eccellenza, carattere
politico, attiene alle condizioni di esistenza della polis, si svolge
nella polis ed in essa si sviluppa attraverso un confronto intorno
alla “misura più giusta”. Ma la circostanza che tale riflessione
politica verta intorno alla misura più giusta implica che la
14
determinazione di tale misura si ponga sotto la condizione di
“render conto e ragione” della sua scelta.
La determinazione della misura costituisce, perciò,
l’esito di una deliberazione politica: la misura è, di volta in volta,
decisa dalla città (polis) attraverso un confronto (polemos) che ne
discute la verità e la ragione, cioè è sempre decisa politicamente ma
pensata universalmente.
La contraddittoria pretesa del diritto di valere in forza
della decisione che lo ha deliberato e, insieme, di trovar
fondamento nella giustizia, nasce, dunque, dall’origine
propriamente politica dell’ordine che sancisce e dal suo esser
pensato, al contempo, come universale, come l’ordine giusto.
La misura – che del diritto è una metafora - è
assolutamente artificiale ma viene pensata e deliberata, di volta
in volta, come universale, come la “giusta misura”.
Essa è artificiale, arbitraria, poiché, sebbene in sé
assolutamente necessaria, nella sua determinazione
contenutistica è assolutamente artificiale: la misura è creata, è
decisa, di volta in volta.
Ma essa si presenta, al tempo stesso, come universale,
perché, nonostante la sua artificialità, è, sempre, concepita e
prospettata come universale, cioè come una misura non decisa
di volta in volta ma valida per tutti, da sempre e per sempre.
In questa misura, che racchiude l'orizzonte di senso
deliberato dalla società, consiste la Giustizia di cui parla la
dottrina giuridica.
Una volta socialmente istituita, questa misura assume,
però, la forma del nomos, diviene la Legge della città. Sicchè non
è improprio dire che la Giustizia si dà nel diritto. Il diritto,
infatti, si dà sempre come universale, nel senso, appunto, che
muove da codesta domanda necessaria di una misura comune e
che è concepito come una risposta universale a tale necessità.
Solo che, come la Giustizia cui dà forma, è, al tempo stesso,
assolutamente artificiale, nel senso che non ha altro
fondamento che la deliberazione sociale con cui, di volta in
volta, è assunto.
15
Il diritto, dunque, è la Giustizia deliberata, ma l'uno e
l'altra si danno come universalità arbitraria e racchiudono il
medesimo enigma: “che tale universalità arbitraria è il
fondamento e la condizione di esistenza di ciò che è in effetti la
cosa meno arbitraria di tutte, la comunità cittadina, la società”.
3.3.- Storicità dei valori e stabilizzazione attraverso il
diritto.
Una misura può essere concepita come universale, in
quanto si presenti fondata su di una giusta proporzione, cioè si
presenti come un criterio che discende da un valore universale
Ma questa universalità della giustizia è, sempre,
condizionata dalla necessaria storicità del valore che, di volta
in volta, la struttura.
I valori, infatti, si presentano sempre come universali
ma sono, invece, necessariamente storici e, comunque, storica è
la gerarchia secondo la quale, di volta in volta, reciprocamente
essi si dispongono.
La necessaria storicità dei valori e delle loro gerarchie
dipende, innanzitutto, dalla circostanza che essi non si danno
in natura, non si attingono dalla realtà. Al contrario i valori si
contrappongono alla realtà come l’”essere” si contrappone al
“dover essere”: un valore non rispecchia la realtà, ma dice come
la realtà deve essere in luogo di come è.
I valori, inoltre, non sono deducibili logicamente e
non sono attingibili sulla base della sola ragione. Una
deduzione, infatti, presuppone che si sia prima accertato quale
sia il valore principale, il valore fondante, dal quale dedurre ed al
quale rapportare tutti gli altri valori. Ma l’operazione che
determina tale valore fondante non consiste in un’operazione
logica bensì in una decisione. Il carattere fondativo di un valore
dipende, infatti, da una selezione tra molteplici valori; questa
selezione non può che avvenire riferendosi a ciò che è
essenziale per l’uomo e per la società; ma ogni selezione, in
quanto richiede di stabilire ciò che è essenziale e ciò che non lo
è, implica sempre una scelta, una decisione, e cioè si dà in forza
16
di un atto di volontà e non di un atto intellettivo, di mera
conoscenza.
Per tornare alla metafora di Aristotele, l’opera del guerriero,
in sé incommensurabile, in tanto si renderà comparabile alla cura del
medico o ai prodotti dell’agricoltore in quanto l’una e gli altri siano
riferiti ad una “misura comune”. Ma questa “misura comune”, che è
necessaria ma non si rinviene in natura, non potrà che determinarsi
secondo un valore che discrimini ciò che vale di più ed istituisca una
gerarchia, rispettivamente, tra virtù militare, sapienza e laboriosità.
Stabilire, però, cosa valga di più tra virtù militare, sapienza e
laboriosità richiede di interrogarsi su quale tra queste virtù sia
soprattutto propria dell’uomo, cioè su quale di esse sia “più
essenziale” delle altre. E poiché la “vera natura” dell’uomo non è
suscettibile di conoscenza scientifica, allora ad un tale interrogativo
non potrà che rispondersi attraverso una decisione, cioè decidendo di
volta in volta che quel che conta innanzitutto nell’uomo è il suo
coraggio o la sua sapienza o la sua laboriosità.
I valori, secondo i quali di volta in volta la misura si
struttura, costituiscono, dunque, determinazioni storiche
della società.
Più esattamente, essi costituiscono il riassunto di
un’interpretazione del mondo, e cioè l’espressione di una
visione dell’uomo e del suo rapporto con la natura e con gli altri
uomini: ciò che soprattutto vale ed in rapporto a cui si
determinano i valori relativi, minori e differenti, di tutte le altre
cose.
Nei termini della metafora: la difesa della comunità contro i
nemici esterni o la cura dei suoi membri o l’approvvigionamento dei
beni necessari alla sua riproduzione.
Quest’interpretazione del mondo può essere evidentemente
influenzata dalla condizioni storiche di esistenza della comunità
che la elabora, ma costituisce, comunque, una creazione
sociale, è una produzione della società, che la società stessa, e
cioè l’insieme degli individui sociali, pone in essere al fine di
17
supplire alla mancanza di una misura naturale, per istituire un
ordine delle relazioni tra i suoi membri.
Quest’interpretazione del mondo, a sua volta, si condensa
in un senso nucleare, e cioè nel valore fondativo secondo il
quale, di volta in volta, ciascuna epoca della società si concepisce
e concepisce e struttura il proprio ordine.
Nei termini della metafora, ciò vuol dire che una società potrà
concepirsi, di volta in volta, come una comunità di guerrieri o come
una comunità retta dalla saggezza o come un consorzio di laboriosi;
che a seconda di come, di volta i volta, si concepisce, assumerà come
suo senso nucleare, rispettivamente, la virtù militare, la sapienza o la
laboriosità e che secondo il senso nucleare così prescelto organizzerà
l’ordine delle proprie relazioni.
Val la pena di aggiungere che quel che così si è
rappresentato a partire dall’idea aristotelica della “misura” può
essere anche spiegato in termini antropologici e sociologici.
I sistemi viventi – si è osservato – funzionano secondo un
codice biologico, che è funzionale esclusivamente alla loro
riproduzione ed è cieco rispetto a tutto ciò che oltrepassa tale
funzione. Ma l’esistenza di un codice biologico fa sì che ogni
vivente per sé, in quanto esistente, semplicemente attualizza ciò
che doveva essere e che non gli era dato di far essere in modo
diverso.
Al contrario di ciò, il vivente umano è – come ricorda
Gehlen – un “compito a sé stesso”. Non ha un telos naturale e
un codice istintuale e si dà, piuttosto, innanzitutto come
mancanza, ciò si caratterizza per ciò che non ha, per l’assenza di
un fine predeterminato e di un codice istintuale indisponibile.
Perciò, a questa deficienza della sua natura il vivente umano
deve supplire creando egli stesso una sorta di “seconda natura”.
Questa indeterminazione del vivente umano non solo
implica che esso si ritrovi costretto a darsi un codice e un telos
artificiali, ma comporta anche che sia nella condizione, anzi
nella necessità, di “decidere” il codice ed il telos secondo cui
organizzare la propria sopravvivenza e la propria riproduzione.
18
I sistemi sociali, dunque, suppongono necessariamente
un’istanza deliberativa che determina il senso che essi
naturalmente non hanno e che, per conseguenza, fissa l’identità a
partire dalla quale soltanto si determina l’ordine artificiale che
sopperisce alla mancanza di un codice irriflesso.
Poiché la creazione dei valori, secondo la quale si struttura
un’interpretazione del mondo, nasce dall’esigenza di supplire
alla mancanza di una “misura naturale” (o di un codice
biologico), ad essa è connaturata l’esigenza di stabilità.
I valori socialmente accettati, il “senso nucleare” secondo il
quale una società ha deliberato di concepirsi, perciò, debbono
essere garantiti, debbono essere presidiati da una forza che ne
assicuri l’osservanza, giacché altrimenti la società resterebbe
priva della “misura”, del “codice” di cui manca e di cui ha,
invece, necessità.
Il diritto consiste, per l’appunto, nella stabilizzazione di
questi valori, del “senso nucleare” che li riassume attraverso la
garanzia della forza.
Con l’incorporazione nella legge che lo garantisce e
stabilizza questo “senso nucleare” si oggettivizza, si estrapola
dal divenire storico in seno al quale è maturato e si mostra
come il principio dal quale muove la razionalità secondo cui si
articola l’ordine sociale, e perciò come il suo fondamento.
Ma la sua origine nella decisione sociale che lo istituisce fa
di tale senso nucleare una ratio decisa e un fondamento infondato:
esso non è deducibile da alcuna precedente “verità” ma è
tuttavia istitutivo della razionalità di un’epoca della società, non
ha altro fondamento che la deliberazione sociale che lo ha
istituito e tuttavia opera come il fondamento dell’intero ordine
sociale, non è che un “fatto” ma nel momento in cui accade si
dà come diritto, ossia come regola dei fatti.
3.4.- Lo scarto del diritto e la giustizia come critica della
Legge
L’interpretazione, che presiede, di volta in volta, alla
determinazione dei valori, implica, sempre e necessariamente,
19
una decisione: essa, del tutto inevitabilmente, privilegia alcuni
valori e ne sacrifica più o meno integralmente altri.
Ad es., del tutto ovviamente, un’interpretazione del mondo
che privilegiasse il valore della libertà e che, di conseguenza, la
ponesse all’apice dell’ordine giuridico inevitabilmente sacrificherebbe,
in maniera più o meno consistente, il valore della solidarietà.
Dunque, i valori recati da un’interpretazione del mondo
scartano altri valori, e perciò creano uno scarto: valori
insoddisfatti che chiedono soddisfazione.
Ma questi valori pretermessi non scompaiono del tutto,
rimangono latenti e continuano ad essere agiti dai bisogni, dalle
aspirazioni e dagli interessi che in essi prendevano corpo e che
si ritrovano in qualche modo sacrificati dall’interpretazione del
mondo che li ha scartati: sicchè questi valori insoddisfatti
cercano soddisfazione proponendo nuove misure che ribaltino
la gerarchia istituita.
Ad es., privilegiando la solidarietà sulla libertà.
La misura, di volta in volta, istituita come la “giusta
misura” è, dunque, sempre sottoposta alla critica di una misura
ritenuta, di volta in volta, “più giusta”: la giustizia subisce il
giudizio di una misura più giusta concepita come la
“vera” giustizia.
E così può accadere che il diritto, concepito ed istituito
come stabilizzazione della “giusta misura”, come garanzia
attraverso la forza della “giustizia”, venga proclamato
“ingiusto” e che il suo abbattimento venga richiesto nel nome
stesso della giustizia.
Quando una nuova misura riesce a scalzare la misura
istituita una nuova interpretazione del mondo soppianta quella
prima condivisa e si inaugura una nuova epoca della storia della
società.
20
Cap. II.-
Il diritto come sistema.
1.- Diritto, sistema e stabilizzazione della misura.
Il diritto stabilizza la misura, il senso nucleare secondo cui la
società concepisce sè stessa e si rappresenta il proprio ordine.
Questa misura, questo senso nucleare non sono
deducibili nè dalla natura nè dalla ragione, ma costituiscono
creazioni dell'immaginazione sociale, che si danno come
interpretazioni del mondo, e cioè come rappresentazioni
dell'uomo e del suo rapporto con gli altri uomini e con la
natura.
Poichè non sono vincolate dalla natura nè dalla ragione
queste interpretazioni del mondo possono mutare, e storicamente
sono mutate.
La domanda «cos'è il diritto ? » deve, perciò, essere
riformulata nella domanda «come la modernità ha concepito il
proprio ordine giuridico? ».
A questa domanda si può rispondere adeguatamente
solo chiarendo preliminarmente che il diritto costituisce un
sistema della società e che l'ordine giuridico dipende dal modo
in cui ciascuna epoca storica ha concepito i rapporti tra tale
sistema e gli altri sistemi sociali, e cioè tra il diritto, da un lato, e
l'etica, la politica, l'economia, ecc., dall'altro.
Il diritto consiste nella garanzia attraverso la forza di
una misura, di un ordine che, di volta in volta, riassume le
interpretazioni del mondo che contraddistinguono le diverse
epoche della società.
Precisamente, il diritto consiste nella stabilizzazione attraverso
tecniche sanzionatorie dei significati, delle strutture che
caratterizzano un ordine determinato delle relazioni sociali e la
cui permanenza è essenziale per la conservazione di tale ordine.
21
2.- Sistema giuridico e strategia normativa.
Il diritto in quanto tecnica sanzionatoria, deputata a
stabilizzare un ordine, istituisce un sistema.
Un sistema consiste in un più o meno complesso insieme di
rimedi, di soluzioni, destinati ad orientare il comportamento
degli individui ed a fornire prestazioni che risolvano i loro
problemi ed i loro conflitti
Più esattamente, come tecnica, il diritto si caratterizza come uno
specifico trattamento delle delusioni:
- ogni individuo agisce in base ad aspettative di
comportamento degli altri, ossia ciascuno stabilisce di
comportarsi in un modo invece che in un altro sulla base di quel
che reputa sarà il comportamento dell'atro: ad es., salutiamo
qualcuno, poichè ci aspettiamo che questi risponda al nostro
saluto; diamo del denaro al giornalaio poichè ci aspettiamo che
questi ci dia il giornale, ecc.,
- un'aspettativa può, però, rimanere delusa: ad es., chi
abbiamo salutato può non rispondere al saluto; il giornalaio può
non darci il giornale dopo aver preso il nostro denaro, ecc.,
- la delusione di un'aspettativa può essere trattata in due
modi, e cioè attraverso strategie cognitive o attraverso strategie
normative,
- una strategie cognitiva consiste in ciò, che la delusione
procura un apprendimento sulla base del quale si cambia il
proprio comportamento: ad es., reagisco alla delusione del
mancato ricambio del saluto apprendendo che non sempre il
saluto viene ricambiato ed in base a quest'apprendimento, onde
evitare nuove delusioni, stabilisco di modificare il mio
comportamento nel senso di aspettare, prima di salutare, un
cenno di riconoscimento dell'altro,
- una strategia normativa, invece, consiste in ciò, che
l'aspettativa viene confermata nonostante la sua delusione e che
questa viene «compensata» in modo che chi l'abbia subita non
desista dal comportamento tenuto: ad es., la mancata consegna
del giornale non dà luogo alla rinuncia al suo acquisto,
l'aspettativa che alla corresponsione di una somma di denaro
segua la consegna di un bene viene confermata e la delusione
22
subita viene compensata attraverso dei rimedi che possono
consistere nell'obbligare il giornalaio a consegnare il giornale
anche contro la sua volontà o nel costringerlo a restituire la
somma ricevuta e a risarcire il danno arrecato.
Il diritto, allora, si caratterizza come sistema normativo,
e cioè come sistema che applica alle delusioni strategie
normative, cioè che si propone di confermare le aspettative, che
ciascuno nutre sul comportamento degli altri, compensando
l'eventuale loro delusione attraverso dei rimedi che prendono il
nome di sanzioni (ossia, nell'es., attraverso l'esecuzione coattiva
dell'aspettativa o attraverso la restituzione di quel che si è dato
ed il risarcimento del danno subito).
3.-Struttura del sistema giuridico: codice binario, logica
immunitaria e programmi condizionali.
In quanto sistema normativo il diritto consiste, perciò,
in un codice binario, ossia in un dispositivo che seleziona i
comportamenti umani e li qualifica come “leciti” o “illeciti”, che
assegna ogni situazione nella quale siano coinvolti interessi delle
persone nell’ambito del “diritto” o in quello del “non diritto”.
Il diritto in quanto sistema normativo rappresenta
l'aspetto universale del diritto, ciò che è sempre e
imprescindibilmente presente in ogni diritto di qualsiasi luogo
ed in qualsiasi tempo.
Il diritto universalmente considerato consiste in una
tecnica sanzionatoria deputata a stabilizzare aspettative di
comportamento. Ma le aspettative di comportamento, che di
volta in volta vengono stabilizzate dal sistema giuridico, sono
diverse e corrispondono ad un ordine che muta a seconda delle
diverse epoche della società, e che perciò costituisce l'aspetto
determinato del diritto.
La logica, che presiede alla combinazione delle strategie
normative con l'ordine che esse intendono stabilizzare, è una
logica immunitaria: le strategie normative si applicano ai
comportamenti che, se non aggrediti, destabilizzerebbero
l'ordine programmato.
23
I comportamenti rispetto ai quali entra in opera tale
logica sanzionatoria si determinano sulla base di programmi
condizionali che rispondono all'ordine delle relazioni sociali di
volta in volta deliberato.
Tali programmi inseriscono i comportamenti
contraddittori rispetto all’ordine sociale da stabilizzare in un
dispositivo ipotetico che li assume a condizione di una
sanzione: se X (= comportamento vietato: ad es., se qualcuno
arrecherà ad altri un danno ingiusto), allora Y (= sanzione: ad
es., questo qualcuno sarà obbligato a risarcire il danno arrecato).
Ordine e sanzione, e cioè programmi e tecniche di
stabilizzazione, designano un sistema giuridico nella sua
determinazione storica, nella configurazione che di volta in
volta assume nelle diverse epoche della società.
4.- Sistema giuridico e ordine sociale.
Secondo queste categorie bisogna, allora, interrogarsi su
come la società moderna abbia determinato il proprio sistema
giuridico, e perciò come abbia concepito l'ordine giuridico che
la regge-
In via generale, i sistemi rispondono a due paradigmi
fondamentali, che dipendono dai rapporti che essi
intrattengono con gli altri sistemi sociali.
Una società è strutturata da una pluralità di sistemi;
sistema etico/religioso, sistema economico, sistema politico,
ecc.
L'insieme di questi sistemi (che nel linguaggio della
teoria sociologica costituisce l'ambiente) è all'origine dei problemi
che ciascun sistema è deputato a risolvere ed è, perciò, il
destinatario delle sue prestazioni risolutive.
Ad es., il sistema economico pone il problema della
stabilità degli scambi che al suo interno si sviluppano; il sistema
giuridico è, così, chiamato a risolvere con i suoi rimedi questo
problema; per far questo, il sistema giuridico inserisce nel
proprio codice binario (precisamente nell’alternativa: illecito) i
comportamenti degli operatori di mercato che si mostrano
24
contraddittori rispetto al bisogno di stabilità; e questo fa,
assumendo tali comportamenti (= rifiuto di eseguire uno
scambio concordato) a condizione di una sanzione (=
esecuzione coattiva dello scambio e/o risarcimento del danno);
in tal modo il sistema giuridico offre una prestazione al sistema
economico che ne risolve il problema dell’efficienza del
mercato.
Ciascun sistema, dunque, si caratterizza, innanzitutto,
per i rapporti che intrattiene con gli altri sistemi.
Un sistema giuridico, pertanto, si caratterizza,
innanzitutto, per il tipo di rapporti che intrattiene con gli altri
sistemi che strutturano la società.
In questa prospettiva, il diritto può presentarsi come
sistema aperto agli altri sistemi o come sistema rispetto ad essi
chiuso.
Ovviamente, chiusura e apertura di un sistema giuridico
debbono intendersi come carattere tendenziale del diritto di
un’epoca della società. Deve ritenersi scontato, infatti, che,
all’interno di un sistema chiuso si ritrovano anche norme o
settori normativi aperti all’influenza degli altri sistemi (ad es.: il
diritto di famiglia) e viceversa. Ciò che conta, però, è la
tendenza di fondo di ciascun sistema giuridico, l’orientamento
prevalente dei suoi principi costitutivi nel senso dell’apertura
verso gli altri sistemi sociali o della sua chiusura verso le
influenze esterne.
5.- Il diritto moderno come sistema giuridico chiuso.
Il diritto moderno si caratterizza essenzialmente come
sistema chiuso e la storia della sua formazione è la storia della
conquista della sua autonomia dagli altri sistemi sociali.
Per cogliere esattamente i caratteri del diritto moderno
occorre, perciò, tratteggiare puntualmente la distinzione tra
sistema aperto e sistema chiuso.
Un sistema giuridico può dirsi aperto quando, in linea
di tendenza, attinge direttamente dagli altri sistemi:
25
(a) le condizioni di operatività dei propri precetti: cioè
quando fa dipendere l’applicazione delle proprie regole, ad es.,
dalle qualità sociali, politiche, economiche delle persone;
(b) e/o la distinzione delle aspettative da conferma o
dissuadere: cioè quando fa dipendere tale distinzione,ad es.,
dalla concezione più o meno comune, del giusto o del bene
Esempi di sistemi tendenzialment aperti sono, un
tempo, il diritto feudale e, ora, il diritto islamico: il primo,
perché faceva dipendere la condizione dei beni e le relazioni tra
le persone dal loro status di servo o signore; il secondo, perché
fa spesso dipendere la licità o illiceità dei comportamenti dei
cittadini dalla loro conformità o difformità alla legge coranica.
Un sistema giuridico può dirsi, invece, chiuso, quando
determina esso stesso, in modo autonomo:
(a) le condizioni di operatività dei propri precetti: non
facendola dipendere dalle qualifiche e qualità che persone e
cose ricevono negli altri sistemi;
(b) i criteri che presiedono alla distinzione tra
aspettative da confermare o da dissuadere, non facendole
dipendere dalla conformità ai criteri di giudizio propri degli altri
sistemi.
Un sistema soddisfa alle condizioni della sua chiusura:
(a) in negativo:
(a/1) quando non rinvia alle nomenclature di altri sistemi;
(ad es.: non facendo dipendere il rapporto tra gli uomini e la terra
dalla qualità di “servo” e “signore” e non facendo dipendere da tale
qualità neanche il rapporto tra chi lavora la terra e chi ha diritto di
appropriarsi dei suoi prodotti)
(a/2) quando non importa dagli altri sistemi i parametri
secondo cui elaborare i propri programmi condizionali.
(ad es.: non facendo dipendere l’ingiustizia del danno da
considerazioni di carattere morale o sociale)
(b) in positivo:
26
(b/1) quando elabora un vocabolario proprio ed esaustivo, ossia
quando si presenti come autonomo;
(ad es.: stabilendo che “proprietario” è “chiunque” possa addurre a
fondamento del possesso di un bene un titolo giuridico quale un
contratto di acquisto o una successione mortis causa)
(b/2) quando elabora determina esso stesso le condizioni di
riconoscimento dei propri precetti, ossia quando si presenti come
autofondato.
(ad es.: stabilendo che è ingiusto solo il danno che consista nella
lesione di un diritto attribuito dall’ordinamento)
Soddisfa alla prima di queste condizioni, l’autonomia, un
sistema giuridico le cui norme abbiano carattere:
- astratto, ossia designino persone e cose cui si riferiscono a
prescindere dalle determinazioni che esse ricevono negli altri
sistemi sociali (ad es., “chiunque”, invece di padrone / schiavo,
servo / signore, chierico / laico, ecc. o cosa invece di feudo /
possesso servile, bene di consumo / mezzo di produzione, ecc);
solo prescindendo da tali determinazioni, infatti, le norme
giuridiche possono essere autonome, cioè possono operare in
modo indipendente dagli altri sistemi sociali.
- generale, ossia designino le azioni che qualificano come lecite
o ilecite a prescindere dalle connotazioni particolari, dalle
circostanze specifiche che ne determinano la loro singolarità;
solo così, infatti, le norme giuridiche possono essere esaustive,
solo riferendosi a classi generali di azioni, esse possono
ricomprendere tutti i possibili comportamenti dei membri di
una società e non aver bisogno di integrarsi attraverso il
riferimento agli altri sistemi sociali.
Soddisfa alla seconda di queste condizioni,
l’autofondazione, un sistema giuridico che determini esso
stesso in modo formale le condizioni di validità delle proprie norme,
ossia le condizioni dalle quali dipende l’applicazione ed il
funzionamento del proprio codice binario e della propria logica
immunitaria.
Ciò avviene, quando un sistema giuridico non fa
dipendere la validità delle proprie regole dalla conformità ai
27
principi morali o all’ordine proprio del sistema politico, e
dunque non assume, rispettivamente, il sistema etico o il
sistema politico a fondamento della propria legittimità e del
proprio funzionamento. Ma sancisce che debbano essere
osservate e sono sanzionate solo le regole che risultino poste
secondo altre regole (sulla produzione delle norme) da esso
stesso poste; e, così facendo, fa dipendere la legittimità ed il
funzionamento delle proprie regole esclusivamente da altre
regole, e cioè da sé stesso.
Queste due condizioni, autonomia ed autofondazione, si
implicano reciprocamente:
- l’autonomia implica l’autofondazione, giacchè solo
rinunziando a riferirsi agli altri sistemi si può prescindere dal
loro vocabolario;
- l’autofondazione implica l’autonomia, giacchè solo attraverso
un vocabolario proprio ed esaustivo un sistema può rinunziare
al riferimento agli altri sistemi come propria origine e
fondamento.
6.-Autonomia e autofondazione del diritto moderno e
ruolo del giudice.
Occorre, infine, aggiungere che all’autonomia ed
aufondazione del diritto si riconnettono, necessariamente,
concezioni diverse e ruoli differenti di chi è chiamato ad
applicare il diritto, del giudice:
- in un sistema aperto, ove la regola e la sua sanzione si
determinino per rinvio agli altri sistemi sociali, il giudice è
chiamato ad un ruolo “oracolare”, a dire, per il diritto ed
in luogo del diritto, ciò che è lecito e ciò che non lo è;
- in un sistema chiuso, ove invece la regola sia determinata
autonomamente ed autonomamente fondata, il giudice,
invece, assume un ruolo fondamentalmente “dichiarativo”,
di “bocca della legge”, ossia di esecutore della volontà
28
della legge o, al più, di mediatore neutrale tra l’astrattezza
della norma e la concretezza del caso da decidere, secondo
uno schema che, tradizionalmente, viene ricondotto al
sillogismo (dove la legge è la “premessa maggiore”, il caso
concreto la “premessa minore”, e la sanzione la
“conseguenza”).
Dunque un sistema giuridico può riferirsi agli altri sistemi
sociali secondo paradigmi diversi, i quali implicano strutture
diverse del diritto.
Segnatamente, un sistema giuridico chiuso comporta
che il diritto sia differenziato dagli altri sistemi sociali. E perché
sia differenziato occorre che si dia come autonomo ed
autofondato, ossia che le sue norme abbiano carattere generale
ed astratto e che il loro riconoscimento sia rimesso ad un
principio formale di validità.
Il diritto moderno, proprio in quanto consiste in un
sistema autonomo ed autofondato, è, allora, l’esito di un
processo di differenziazione dei sistemi sociali, che struttura in
profondità non i semplici contenuti del diritto ma le forme delle
sue norme e la stessa struttura della società, ossia dei rapporti
tra i sistemi che la compongono.
29
Cap. III.-
La formazione storica del diritto moderno.
1.- Carattere dei sistemi giuridici e alternativa tra
giusnaturalismo e positivismo.
La contrapposizione tra sistema aperto e sistema chiuso
concerne, dunque, il rapporto tra diritto e società.
Tale contrapposizione si è storicamente sviluppata,
nell’epoca moderna, nella forma dell'alternativa tra
giusnaturalismo e positivismo.
Ciò di cui si discute mediante questa contrapposizione
tradizionale, è, allora, specificamente, il problema
dell'autonomia del diritto positivo e del suo fondamento.
Le concezioni giusnaturalistiche prospettano il diritto
come un sistema aperto e sono portatrici dell'idea di un ordine
esterno al, e precedente il, diritto positivo, al quale questo deve
conformarsi e che costituisce il fondamento della sua validità.
Le concezioni positivistiche prospettano il diritto come
un sistema chiuso e sono portatrici dell'idea che l'ordine
giuridico sia indipendente, autonomo dall'ordine materiale e da
quello morale, che l'ordine giuridico sia un ordine di volta in
volta deciso dalla società e che, perciò, che esso trovi solo in sè
stesso il proprio fondamento.
Dipendenza dall'ordine esterno ed autonomia
costituiscono i poli tra i quali si sviluppa la vicenda del diritto
moderno: la storia del diritto e della scienza giuridica moderni è
la storia del passaggio del diritto dalla sua dipendenza dalla
società alla sua autonomia dalla società, e della emancipazione
della scienza giuridica dagli altri saperi sociali (soprattutto
dall'etica).
Le principali fasi di questo processo sono tre:
(i) il passaggio dall'ordine naturale oggettivo all'ordine naturale
soggettivo;
(ii) l'emancipazione del diritto positivo dal diritto naturale;
30
(iii) l'emancipazione del diritto positivo dall'idea di giustizia.
2.- Dall'ordine naturale oggettivo all'ordine naturale
soggettivo.
Il passaggio dalla concezione oggettiva dell’ordine
naturale alla concezione soggettiva coincide con l'abrogazione
dell'ordine feudale e la nascita della società moderna.
L'ordine sociale era concepito come un ordine di natura.
Il diritto era chiamato a riflettere quest'ordine sociale, e
perciò a far dipendere diritti e doveri dei singoli dalla posizione
che essi rivestivano nell'ordine sociale.
L'ordine sociale era un ordine gerarchico e si
scomponeva in status:
- diritti e doveri dipendevano dagli status di servo o di signore;
- il diritto non era autonomo dalla società, ma si limitava a
rispecchiarla nei suoi assetti dominanti;
- pretese ed obblighi di ogni membro del gruppo sociale
dipendevano dalla sua condizione di servo o signore che era
posta dall'”ordine politico”, dipendevano appunto dal suo status,
dalla posizione che rivestiva nella struttura politica della società.
3.- Dal diritto naturale al diritto positivo.
Tra metà seicento e settecento, la dipendenza della
posizione giuridica del singolo dalla sua posizione sociale viene
contestata sostituendo all'idea di ordine oggettivo l'idea di
ordine soggettivo, e cioè contrapponendo all'ordine sociale reale
un ordine ideale centrato sui diritti individuali naturali.
Il diritto naturale non viene più fatto coincidere con
l'ordine sociale esistente ma con quello che si desume dalla
natura dell'uomo.
Tale nuovo ordine, precisamente, viene così
rappresentato:
31
- tutti gli uomini sono creati da Dio allo stesso modo e sono
creati, a differenza degli animali, come esseri dotati del libero
arbitrio (volontà) e della ragione (discernimento).
- per natura, dunque, tutti gli uomini sono eguali e liberi di
determinare come credono la loro volontà.
- l'ordine naturale è, perciò, l'ordine che spontaneamente risulta
dall'eguaglianza e dalla libertà di tutti gli uomini.
- il diritto deve conformarsi a quest'ordine naturale del soggetto
uguale e libero, cioè ad un ordine razionalmente dedotto dai
principi di eguaglianza e libertà.
- quest'ordine non è, dunque, quello che all'individuo proviene
dalla sua posizione nella società quale di fatto si è (= ordine
naturale = ordine reale), ma quello da esso liberamente voluto,
quello che spontaneamente si sviluppa dal gioco delle libere
determinazioni di ciascun membro del gruppo sociale (= ordine
naturale = ordine quale si darebbe in una società di uomini
liberi ed eguali che si determinano a loro arbitrio).
4.- L’emancipazione dell’ordine giuridico positivo
dall’ordine naturale soggettivo.
Queste idee segnano, già, un'autonomizzazione del
diritto, poichè in forza di esse l'ordine giuridico si affranca
dall'ordine sociale: esse propugnano un ordine giuridico
indipendente dagli status sociali; per esse l'ordine naturale è,
piuttoto, quello che si conforma alla natura dell'uomo ed alla
sua libera creazione; è l'esito della creazione artificiale della
libera dialettica dei diritti individuali e degli individui irrelati.
In questi principi si compiono le grandi rivoluzioni
borghesi che danno inizio alla società moderna e al diritto
moderno.
Ma queste rivoluzioni non si accontentano di
proclamare i nuovi principi dei diritti individuali innati; non si
limitano ad abrogare il vecchio regime, bensì sanzionano il
nuovo ordine con la forza, affinchè il passato non ritorni:
libertà ed eguaglianza di tutti i cittadini divengono articoli delle
Dichiarazioni dei diritti e le strutture del nuovo ordine
32
soggettivo, che da esse si possono dedurre, vengono sviluppate
razionalmente ed assunte a contenuto degli articoli dei Codici
civili.
Da questo momento libertà ed eguaglianza non sono
più fondati sul diritto naturale ma ripetono il loro valore dalle
costituzioni e dai codici che la società si è data.
E così il diritto compie la sua seconda emancipazione:
dopo essersi emancipato dall'ordine sociale oggettivo si
emancipa dal diritto naturale soggettivo.
5.- L'emancipazione del diritto positivo dall'idea di
giustizia.
I nuovi principi di libertà ed eguaglianza, seppur con
taluni limiti attinenti proprio alla inderogabilità di tali principi,
conferivano un nuovo fondamento, una nuova legittimazione al
diritto positivo.
Questi principi, tanto nel campo della organizzazione
della res publica che nel campo dei rapporti tra gli individui,
implicano l'assunzione della volontà, della libera scelta di
ciascun cittadino a fondamento e misura di ogni comando.
La fondazione dell'ordine sociale sulla libertà individuale
produce la teoria della sovranità popolare: l'autorità, il potere
di comando risiede nella volontà dei cittadini; se ciascuno è per
natura libero, ogni regola, in quanto limitatrice di questa libertà,
deve potersi riferire ad una libera determinazione di chi deve
osservarla.
La teoria della sovranità popolare produce l'idea della
legge come volontà generale: solo in quanto rappresentativa
della volontà di tutti, e perciò di ognuno, una regola, un
comando può presentarsi come un auto-regolamento, un autovincolo.
Ma se il fondamento della legge è la volontà generale, la
volontà manifestata nella legge è, essenzialmente, la sua unica
misura: a determinare la natura di norma, la sua vincolatività è
esclusivamente la riferibilità di un comando alla volontà
generale; e poichè la volontà generale si dà solo come
33
procedimento inteso a produrre tale volontà generale (ossia
secondo il procedimento legislativo), il fondamento alla legge
sta nel procedimento, ossia nella sua forma e nella logica
procedurale che la sorregge.
L'abbandono dell'idea dell'ordine naturale oggettivo
priva il diritto di ogni misura ad esso esterna; il nuovo diritto
naturale soggettivo esige solo che il comando sia fondato sulla
volontà degli individui, e dunque eleva la volontà generale, e
perciò le forme di produzione della legge ad unica misura della
giuridicità.
Il “permesso” ed il “vietato” non sono fatti più
dipendere da un principio che oltre e al di sopra del diritto, ma
solo dal modo in cui si è determinata la volontà dei cittadini
attraverso il procedimento che presiede alla formazione della
legge.
Ritornano in campo i vecchi adagi del principato
romano e dell'assolutismo moderno:
- Quod principi placuit legis habet vigorem;
- Auctoritas non veritas facit legem.
Solo che adesso è cambiato il principe, l’autorità: La
volontà generale, e per essa il procedimento di formazione delle
leggi, prende il posto del princeps, dell'auctoritas, e con ciò
libera il diritto, formato secondo i procedimenti che presiedono
alla sua produzione, da ogni vincolo, da ogni condizionamento
esterno proveniente da altri sistemi.
E una concettualità del tutto analoga viene sviluppata
nell'ambito del diritto privato.
Il diritto soggettivo è concepito come signoria della
valontà ed il negozio giuridico come potere della volontà di
determinarsi secondo il proprio arbitrio.
La volontà individuale è così assunta a misura dei poteri
privati e delle relazioni tra gli uomini: ciascuno può essere
obbligato solo in forza della sua volontà, del suo consenso e la
volontà, il consenso divengono, perciò, l'unico fondamento
delle relatizioni giuriche tra i membri di una comunità.
34
E' giuridicamente pretendibile, tendenzialmente, solo
ciò che è stato acconsentito: è giusto solo ciò e tutto ciò che è
frutto della libera determinazione degli individui.
La forma del consenso, ossia la volontà, diviene la
forma delle relazioni private e la logica procedurale diviene la
razionalità alla quale esse vengono così definitivamente
consegnate.
6.- L’interpretazione giusnaturalistica del diritto positivo.
Con ciò si compie, sul piano giuridico, l'emancipazione
del diritto da ogni tutela esterna; la religione, i rapporti sociali di
supremazia, ecc. (il trono e l'altare).
Ma la dottrina giuridica rimane attardata su questo
cammino.
L'originaria derivazione del principio della sovranità
popolare dall'idea di ordine naturale soggettivo induce la scienza
giuridica a configurare i diritti individuali dei membri del
gruppo come precedenti la loro stessa istituzionalizzazione, e
quindi come limiti della stessa volontà generale:
- i singoli si accordano, si associano e danno vita allo stato ed al
diritto per difendere i loro diritti innati, e dunque il loro patto;
- la volontà generale che ne risulta può tutto, meno che
intaccare i diritti individuali per la tutela dei quali è stato
stipulato il patto sociale.
E' questa l'interpretazione garantista delle costituzioni
moderne e l'interpretazione giusnaturalistica dei moderni codici
civili.
La derivazione / fondazione del nuovo ordine pur
sempre dall'idea di ordine naturale (ancorchè soggettivo)
conservava ad esso, un rapporto con l'eterno, con l'universale e
con la ragione/verità.
Quest' ordine di idee permetteva, perciò, una
legittimazione della legge, del diritto positivo, ossia permetteva
di assumere che la voluntas si radicassero nella ratio, che la
volontà generale rispondesse alla giustizia universale.
35
Questo ritardo della scienza giuridica sulla nuova
costituzione del sistema giuridico moderno ha, perciò, una
ragione fondamentale, la legittimazione del diritto positivo, e
diversi motivi.
Precisamente, essa esprime un'esigenza, che promana
dallo stesso sistema giuridico, quella della sua legittimazione, e
trae origine:
- tanto dal permanere delle diseguaglianze materiali (= la
ridistribuzionne ineguale della ricchezza prodotta dal nuovo
regime),
- che dal carattere ancora incompiuto della democrazia (= il
suffraggio censitario).
Il conflitto acceso da tali diseguaglianze e la
contraddizione tra volontà generale e suffraggio limitato
esigevano una legittimazione del nuovo Stato e del nuovo
diritto, che ancora non poteva essere esaustivamente autonoma:
solo immaginando la proprietà un prius rispetto allo stato
sembrava possibile sostenere la sua sacralità ed inviolabilità da
parte della stessa legge; e solo concependo lo stato come
guardiano del diritto “naturale” di proprietà sembrava possibile
giustificare la limitazione del suffraggio elettorale ai soli ceti
proprietari.
Tale legittimazione giusnaturalistica, d'altronde,
corrisponde alla prassi del nuovo stato liberale, che, quanto
meno rispetto ai diritti individuali patrimoniali, si comporta
realmente come uno stato garantista.
A questa versione giusnaturalistica subentro, dalla fine
dell’ottocento, una comprensione dell’ordinamento giuridico
(importata dalla Germania e denominata Pandettistica, perché
formatasi sull’uso moderno delle Pandette del diritto romano)
che vi vedeva la positivizzazione di concetti giuridici che, da
un lato, avevano origine nello “spirito del popolo” ma dai quali,
dall’altro, si potevano estrarre essenze giuridiche rispondenti ad
una razionalità giuridica universale, che si dava al di là del
tempo e che era valida per ogni luogo.
La teoria giuridica pandettistica rappresenta, appunto,
con le sue ambiguità tra la storicità dell'origine delle regole e la
loro riconducibilità a tali essenze giuridiche, questa fase di
36
transizione della scienza giuridica e l'ultimo tentativo in grande
stile di «benevola» tutela esterna del diritto positivo (dell'ordine
sociale da esso prodotto e sanzionato).
7.- Il positivismo giuridico
Allorchè, con l'inizio del novecento, vengono meno le
condizioni, le ragioni di questo ritardo, si porta a compimento
anche l'emancipazione del diritto positivo dalla sua ultima tutela
esterna, quella che su di esso aveva tentato di stabilire la scienza
giuridica in nome del diritto naturale prima e delle essenze
giuridiche universali poi.
Il compimento della democrazia (= suffraggio
universale) e la modificazione del ruolo dello Stato (= dallo
Stato liberale allo Stato sociale) rendono improponibile la
vecchia tutela e richiedono piuttosto una legittimazione
autonoma della legge.
Questo compito è assolto dalle nuove dottrine
giuspositivistiche del diritto, e segnatamente dalla «dottrina pura
del diritto» di H. Kelsen.
Il diritto viene distinto in modo radicale dalla natura e
dalla società: non è la natura o la società a dar significato al
diritto ma questo a dar significato ai fatti individuali ed alle
vicende sociali, assumendole a “condizione” dei propri
imperativi ipotetici e qualificandole per tale via come levite o
illecite (= il diritto come vocabolario del tutto autonomo).
La norma giuridica si caratterizza come uno schema di
qualificazione dei fatti, mediante il quale al comportamento
che contraddica le finalità di volta in volta autonomamente
perseguite dal diritto viene applicata una sanzione come sua
conseguenza (= il diritto come mera strategia sanzionatoria).
Il diritto viene rappresentato come sistema formale:
- la struttura delle norme giuridiche viene identificata nello
schema logico dell’imperativo ipotetico (= se …, allora …)
e nel carattere generale ed astratto delle loro proposizioni;
37
- la giuridicità delle norme viene fatta dipendere non dal loro
contenuto ma dalla circostanza che esse siano state prodotte
in conformità ad un'altra norma di grado superiore.
Il diritto, dunque, è così ridotto a mera forma, mera
tecnica, strumento a disposizione di qualsiasi fine e la giuridicità
viene consegnata al procedimento.
Il positivismo formalistico di Kelsen teorizza, perciò, al
meglio la logica strumentale, e dunque, procedurale, che
contrassegna il diritto moderno, l'abbandono di ogni sua
legittimazione esterna, la sua autofondazione e la sua integrale
autonomia da ogni altro sistema parziale della società.
Volendo rappresentare questo processo storico secondo
le categorie della scienza sociale, si può dire che l'emancipazione
del diritto moderno si sviluppa secondo il paradigma generale
della differenziazione e della secolarizzazione.
Il sistema giuridico, con la Modernità, si differenzia
dagli altri sistemi sociali, ossia si costruisce come sistema
autonomo e chiuso.
E d'altronde, emancipandosi così dalle grandi tutele
delle epoche precedenti (= il Trono e l'Altare), si secolarizza,
ossia tova il suo fondamento non più nell'eterno e
nell'universale ma nel secolo, nel mondo e nella società.
Differenziazione e secolarizzazione producono il diritto
moderno. Ma - come si è visto -la scienza giuridica si
secolarizza con ritardo, e mai in modo del tutto compiuto
Questa sfasatura tra processi reali di differenziazione e
secolarizzazione e processi culturali trovano la loro origine e la
loro spiegazione nella necessità, che il diritto moderno conserva
di legittimarsi, di poter riferirsi ad un limite che non rimanga
integralmente nelle mani della sovranità popolare.
38
Cap. IV.-
Il diritto moderno come diritto formale.
1.- Il formalismo come carattere del diritto moderno.
Il diritto moderno è l'esito di un generale processo di
differenziazione e secolarizzazione della società:
- di differenziazione del diritto dagli altri sistemi sociali, e di
questi tra loro;
- di secolarizzazione del diritto, e cioè di emancipazione del
diritto, e con esso degli altri sistemi sociali, dalle verità rilevate.
In forza di questo duplice e connesso processo, il diritto
moderno si caratterizza come diritto autonomo ed autofondato.
Questi connotati si riassumono nel carattere del c.d.
formalismo del diritto moderno.
L'autonomia del diritto implica una struttura formale delle
proposizioni normative: perchè il diritto sia autonomo è
necessario:
- che le norma giuridiche abbiano struttura generale e astratta
- che esse abbiano struttura ipotetica (= "se …, allora …").
L'autofondazione del diritto implica che l'appartenenza di
una norma al sistema giuridico sia fatta dipendere dalla sua
riconducibilità ad una norma di grado superiore, e cioè implica
un criterio formale di validità.
Autonomia e autofondazione, perciò, implicano che il
diritto moderno sia un diritto formale e che il c.d. formalismo
giuridico sia la teoria che meglio di ogni altra lo rappresenti.
Il formalismo, però, non è un attributo generale del
diritto, ma il connotato che esso assume nella Modernità per
costituirsi come sistema chiuso, e cioè appunto autonomo e
autofondato.
Il diritto moderno, e solo questo in questa misura, si
caratterizza, dunque, per la struttura formale delle sue norme e
per il principio formale cui è sottoposta la loro validità.
39
2.- Il senso materiale del diritto formale:il progetto sociale del diritto
moderno.
Il diritto moderno istituisce un ordine giuridico formale,
vincolato alla forma. Ma questa forma non è a disposizione di
qualsiasi potere. Questa natura formale del diritto moderno
incorpora un senso materiale, che non si può dare che in questa
forma. Un diritto formale incorpora un progetto di società, di
relazioni sociali, del tutto determinato dalla forma che il diritto
ora assume.
Come sistema formale il diritto si prospetta come
tecnica di controllo sociale, cioè come una tecnica per
orientare i comportamenti dei membri i una comunità.
Ma la circostanza che il diritto si caratterizzi e si
distingua per la forma non implica che non abbia una sua
funzione specifica, bensì implica solo che questa funzione sia
indeterminata, o – più esattamente - che appaia indeterminata.
Ciò si esprime dicendo che il diritto risponde al
seguente paradigma funzionale indeterminato, neutrale:
"se vuoi ottenere un certo risultato, quale che esso sia, devi inserire i
comportamenti contraddittori con tale risultato nello schema ipotetico di una
norma che ad essi connetta una sanzione come conseguenza".
Questa, che proclama la neutralità del diritto in sé
considerato e, per conseguenza, la sua irresponsabilità verso i
contenuti che di volta in volta è chiamato a sanzionare, è una
conclusione comune alle correnti positivistiche della teoria
giuridica (cioè alle correnti che risolvono tutto il diritto nella
legge positiva, posta dal legislatore secondo le norme sulla
formazione delle leggi): il diritto è uno strumento, che, in
quanto tale, non è latore di un progetto proprio; l'ordine sociale
rimane ad esso esterno ed è il frutto della contingenza: rapporti
politici, tradizioni culturali, costumi, relazioni economiche,
lobbying, ecc.
In questo senso si usa dire, oggi, che il diritto
contemporaneo è nichilistico.
Ebbene, contrariamente a questa comune opinione, la
costituzione del diritto in sistema formale si deve ritenere
40
incorpori un'interpretazione del mondo, un progetto di società
storicamente determinato.
Dalla struttura formale del diritto moderno, e
cioè del suo carattere autofondato ed autonomo, si possono
dedurre:
(a) la struttura istituzionale dello stato (= diritto pubblico)
(b) l'organizzazione materiale della società (= diritto privato),
delle relazioni tra gli individui sociali.
3.- Autofondazione del diritto moderno, primato
della Legge e Stato di diritto.
In quanto autofondato, il diritto moderno presuppone
ed implica:
(a) la divisione dei poteri
(b) ed il primato della legge,
e cioè quella struttura statale, propria della modernità, che
prende il nome di Stato di diritto.
Ed infatti, un sistema per potersi presentare come
autofondato, presuppone:
(a) che la sentenza del giudice sia fondata su una legge
preesistente. Solo così, infatti, la norma concreta recata dalla
sentenza può fondarsi su un'altra norma, e non sulla mera
volontà del giudice. Il che implica che il potere giudiziario (e
cioè il potere di applicare le leggi) sia distinto dal potere
legislativo (cioè dal potere di porre le leggi).
(b) che la legge sia distinta dal mero potere personale del
sovrano. Solo così, infatti, la legge può fondarsi su un'altra legge
e non sul mero potere. Il che implica che il potere legislativo
(cioè il potere di porre le leggi) sia distinto dal potere di
governo, ossia dal potere esecutivo.
(c) che tanto il potere giudiziario che quello esecutivo
siano tenuti ad applicare la legge, a conformarsi ad essa. Da un
lato, solo se il potere giudiziario è subordinato al potere
legislativo, la sentenza può fondarsi su una legge preesistente e
non sulla mera volontà del giudice. Il che implica che il potere
giudiziario debba essere esercitato in conformità alla legge.
41
Dall’altro, allo stesso modo, solo se il potere esecutivo è
subordinato al potere legislativo, l’esercizio del potere di
comando può fondarsi sulla legge e non sulla mera volontà del
sovrano, sul suo mero arbitrio. Il che implica che il rapporto tra
i poteri sia conformato al principio del primato della legge.
Dal carattere dell'autofondazione si ricavano, dunque, i
corollari generali dello Stato di diritto: divisione dei poteri e
primato della legge.
Ma lo stato di diritto non è una struttura perenne della
società; è, invece, una creazione della modernità, è il risultato di
una decisione, risalente a poco più di 200 anni fa, che sposa una
specifica razionalità. Questa specifica razionalità si coglie, con
ulteriore chiarezza, dal requisito dell'autonomia del diritto.
3.- Autonomia del diritto, astrattezza e generalità delle
norme ed economia di mercato.
In quanto autonomo, il diritto moderno implica
necessariamente una struttura delle relazioni sociali improntata:
(a) al principio di eguaglianza dinnanzi alla legge
(b) al principio di libertà
(c) al principio del consenso, e dunque del libero scambio e
dell'economia di mercato.
Per potersi costituire come autonomo, un sistema
giuridico - come prima si visto - presuppone il carattere
generale ed astratto della normazione. Ed è appunto da tale
carattere che è possibile dedurre la struttura generale delle
relazioni tra gli uomini proprie di una società che presenti un tal
tipo di normazione.
(a) Se le norme di un sistema giuridico hanno carattere
generale ed astratto, gli individui e le cose da esso considerati
non possono che essere regolati in modo eguale, sicchè la
generalità ed astrattezza delle norme implica, di necessità, l'eguaglianza
giuridica.
Ed infatti, l'indifferenza della regolamentazione giuridica
alle determinazioni sociali, politiche ed economiche delle
persone e dei beni (= generalità ed astrattezza) comporta il
42
riferimento esclusivo dell'ordinamento al soggetto giuridico
astratto: se il diritto deve trattare in modo differenziato persone
e beni non può rivolgersi a «chiunque» e riferirsi a «cose», ma
deve rivolgersi a gruppi / status (o a categorie sociali
materialmente connotate) e riferirsi a beni «nominati» (o a
categorie di beni distintamente designate per la loro rilevanza
sociale, economica o politica); mentre se il diritto si rivolge a
«chiunque» e si riferisce alle «cose» in astratto non può non
trattare tutti gli uomini e tutte le cose allo stesso modo.
(b) Ma il trattamento giuridico eguale di tutti gli individui
comporta che i rapporti tra essi si diano necessariamente come
rapporti tra eguali, e dunque come rapporti tra individui liberi,
sicchè l'eguaglianza giuridica implica, di necessità, il principio di
libertà.
Ed infatti, l'irrilevanza giuridica delle diseguaglianze
sociali, politiche ed economiche comporta l'abrogazione dei
vincoli di dipendenza delle società tradizionali ed implica,
quindi, la libertà giuridica dell'uomo in quanto tale: se tutti sono
eguali innanzi alla legge, tutti sono eguali tra loro, e perciò
nessuno potrà vantare potere su altri o costringerli
giuridicamente a fare alcunchè, giacchè i rapporti tra eguali
comportano la liberta reciproca di ognuno verso ogni altro.
Ma eguaglianza giuridica e libertà sono istitutive della (c)
mediazione consensuale come forma universale delle relazioni
sociali e questa, a sua volta, rimette (d) all'interesse ed al bisogno
individuali di agire il sistema giuridico e, per il suo tramite
l'intero sistema della riproduzione della ricchezza.
(c) Se tutti sono in egual modo liberi, nessuno può
essere giuridicamente tenuto a fare alcunchè contro la sua
volontà, sicchè il principio di libertà istituisce, di necessità, il
consenso individuale in forma universale delle relazioni sociali.
Ed infatti, eguaglianza e libertà comportano che
l'acquisto di diritti e di obblighi verso gli altri possa farsi
dipendere solo dall'attuazione di un tipo di comportamento che
ciascuno sia libero di porre (o di non porre) in essere; cioè in
condizioni di eguaglianza e libertà ogni rapporto giuridico (diritto/
obbligo) tra gli uomini può scaturire solo dalla volontà
individuale, e perciò dal reciproco consenso, sicchè il consenso,
43
il libero accordo, diviene l'unica forma di connessione sociale,
l'unico modo nel quale uomini eguali e liberi possono entrare in
rapporto tra loro.
(d) D'altronde, in regime consensualistico la libertà di
obbligarsi soggiace esclusivamente alla necessità di perseguire
un proprio interesse o di soddisfare un proprio bisogno, sicchè
la forma consensuale subordina, di necessità, ogni connessione sociale
all'impellenza economica e sottopone questa, altrettanto necessariamente,
alla forma del libero scambio.
Ed infatti, perchè mai chi è libero dovrebbe accettare di
vincolarsi, se non perchè a ciò lo spinge la possibilità di
perseguire un proprio interesse o la necessità di soddisfare un
proprio bisogno? Ma se a determinare l'intervento del consenso
ed il suo contenuto possono essere soltanto l'interesse o il
bisogno degli individui concreti, l'esigenza di soddisfare
interessi e bisogni diviene il motore fondamentale delle
relazioni sociali considerate dall'ordinamento giuridico. E, al
tempo stesso, far dipendere la soddisfazione di interessi e
bisogni dalla volontà individuale significa, necessariamente, far
dipendere il funzionamento del sistema economico (che
appunto è deputato alla soddisfazione di interessi e bisogni) dal
libero scambio.
4.- Eguaglianza dei soggetti e diversità dei possessi: il
presupposto implicito del sistema giuridico moderno.
Per il vero, la deduzione potrebbe ancora continuare: ci
si potrebbe chiedere cosa agisca interessi e bisogni? perchè, se
tutti gli individui sono eguali, taluni dovrebbero aver bisogno
degli altri e questi altri dovrebbero avere interesse ad accordarsi
con loro? Si dovrebbe, allora, necessariamente supporre che
taluni hanno cose che altri non hanno e che, a loro volta,
mancano di qualcosa che solo gli altri possono dar loro, e
viceversa. Ossia, si dovrebbe supporre che con l'eguaglianza è,
contestualmente, istituita una diversità, senza della quale l'ordine
consensuale e il mercato sarebbero semplicemente insensati, e
comunque ineffettuali. Ma da questa conclusione si dovrebbe
44
necessariamente desumere che il diritto moderno consiste in
una doppia contestuale decisione: in una decisione sulle cose,
che le attribuisce agli individui in modo diseguale, e in una
decisione che prescrive l'eguaglianza quale modo in cui gli
individui possono far fronte a questa diseguale attribuzione
originaria. Della prima decisione, però, non vi è traccia nei
codici moderni, anche se è da essi presupposta: essa, proprio
perchè è (per così dire) ad effetto istantaneo, rimane in qualche
modo esterna alla progettualità normativa, anche se ne segna il
senso. L'istituzione dell'ordine è, invece, affidata tutta alla
seconda decisione, che, proprio per questo, investe la forma e vi
si incorpora.
Nell'astrattezza e generalità della norma moderna è,
dunque, integralmente inscritta la sequenza giuridica
eguaglianza / libertà / consenso, la quale, a sua volta è istitutiva
della distinzione radicale della politica dall'economia e
della subordinazione di questa al mercato: eguaglianza, libertà e
consenso abrogano qualsiasi vincolo delle persone alle cose e
delle persone tra loro; per conseguenza escludono che gli status
politici e le gerarchie sociali possano mai costituire titolo
giuridico per l'appropriazione delle risorse; dunque assegnano
agli individui privati di accordarsi sulle condizioni alle quali
entrare in rapporti tra loro per avviare il processo produttivo; e,
per ciò stesso, rimettono la produzione e distribuzione della
ricchezza al libero scambio.
E l'inderogabilità di questa sequenza è di agevole
riprova, ragionando sulla sequenza contraria: un diritto
generalmente diseguale implicherebbe, di necessità, un sistema
di privilegi; ma un sistema di privilegi comporterebbe,
necessariamente, il potere di taluni su altri e l'obbligo di questi
verso i primi; da questi poteri e da questi obblighi, però,
discenderebbero, altrettanto necessariamente, pretese
appropriative e soggezioni all'appropriazione; ma ciò
comporterebbe, inevitabilmente, che a reggere e conformare il
processo produttivo sarebbe il rapporto gerarchico, che
presiede a siffatte pretese ed alle relative soggezioni; e, poichè i
rapporti gerarchici, in quanto rapporti di potere, attengono alla
politica, la subordinazione del processo produttivo a siffatti
45
rapporti implicherebbe, inevitabilmente, la subordinazione
giuridica dell'economia alla politica, o, più esattamente, alla
politica in quanto organizzazione gerarchica della società
secondo poteri tradizionali.
Nella personalizzazione e nel particolarismo del diritto
è, dunque, inscritta, con la medesima necessità e l'analoga
integralità, la sequenza giuridica: diseguaglianza /
subordinazione / coercizione personale, a sua volta
necessariamente istitutiva della sottoposizione del sistema
economico ad una ratio politica (per così dire)
tradizionalisticamente gerarchica. Ed il sistema giuridico feudale
è, di tutto ciò, un esempio eloquente e verificabile.
Dunque, dall'autonomia del diritto moderno si può
dedurre un modello di società concepita come insieme di
uomini liberi e irrelati che si determinano reciprocamente sulla
base dei loro interessi particolari attraverso il libero scambio,
nella quale, però, l'eguaglianza e la libertà presuppongono la
diseguaglianza materiale, dei possessi privati.
5.- Razionalità giuridica formale e razionalità sociale
procedurale.
La razionalità postulata dallo Stato e dal diritto moderni è,
dunque, una razionalità giuridica formale:
Il diritto moderno non attribuisce pretese positive agli uni
verso gli altri, non istituisce relazioni necessarie tra gli uomini,
ma si limita a prescrivere la forma in cui gli individui possono
liberamente istituire relazioni tra loro e sulla loro base avanzare
reciproche pretese.
Il dispositivo fondamentale del diritto moderno si può,
perciò, rappresentare nei seguenti termini:
«darò forza di legge, cioè renderò obbligatorio e sanzionerò con
la forza, ciò su cui vi sarete messi d’accordo».
46
La ragione cui si informa un tale diritto non risiede,
perciò, nel contenuto del comando, ma è affidata alla forma che
esso impone alle relazioni tra gli individui:
«La giustizia non dipende dal fatto che Tizio o Caio abbiano
questo o quest’altro, ma dalla circostanza che Tizio e Caio
ricevano ciò che si sono reciprocamente promessi e su cui si
sono accordati».
Dunque, la giustizia della legge non dipende dal suo contenuto
ma dalla forma delle relazioni sociale che impone; la Ragione che istituisce
è, perciò, una razionalità meramente formale.
La costruzione del diritto come mera forma implica che il
diritto rinunci ad imputarsi un fine proprio, un compito proprio
in ordine alla società:
- il diritto si dà come mezzo e non come fine: è una tecnica al
servizio di qualsiasi scopo;
- la sua funzione è, conseguentemente, una funzione senza
fine, ateleologica, è la funzione tecnica che è propria di
qualsiasi mezzo, è, perciò, una funzione meramente
strumentale.
Ma in questa rinuncia del diritto ad un fine suo proprio è
iscritta una finalità sociale assolutamente determinata.
La razionalità giuridica formale implica, infatti, una
razionalità sociale procedurale:
- Il diritto formale, astraendo dai rapporti sociali, politici ed
etici, organizza i rapporti sociali come rapporti essi stessi
formali;
- Il diritto non ha fini ma appresta mezzi perché ciascun
individuo persegua con essi i fini suoi propri.
La razionalità giuridica formale, allora, persegue una
razionalità sociale procedurale, ossia persegue come razionale
quell’assetto sociale che si produce spontaneamente per effetto
dell’osservanza della procedura del libero e reciproco accordo.
La razionalità giuridica formale e la razionalità sociale
procedurale, che le corrisponde, istituiscono però, a loro volta,
le condizioni di operatività di un’altra razionalità, la razionalità
47
economica mercantile, che rimanda, pur essa, ad una
razionalità sociale generale:
- L’autodeterminazione giuridica degli individui implica che il
sistema economico sia agito solo da interessi e bisogni, ossia
da sè stesso, sicchè l’autonomia del diritto implica
l’autonomia dell’economia;
- Ma l’autonomia dell’economia corrisponde, a sua volta, ad
una razionalità sociale, nella quale il mercato, a sua volta, si
prospetta come il mezzo per assicurare a ciascun individuo
di decidere di sé stesso e di costituirsi in signore delle sue
aspirazioni e della loro soddisfazione.
Il diritto, dunque, si situa al centro di una serie di rimandi,
di implicazioni reciproche e necessarie, in forza delle quali la
razionalità di ciascun sistema della società si lascia ricondurre ad
un’autorappresentazione sociale unitaria, ad un significato nucleare
ultra-sistemico, che coincide con l’individualismo moderno.
Razionalità giuridica formale, razionalità economica
mercantile e razionalità sociale procedurale si istituiscono a
partire dal fatto che la società si concepisce come insieme di
individui in origine irrelati.
Ma proprio in questa autorappresentazione sociale sta la
centralità del diritto per la Modernità, il ruolo inedito che
esso assume in quest’epoca della società, la sua costitutività
della società moderna.
Una società che progetta le proprie relazioni come relazioni
tra individui liberi ed eguali organizzate dal contratto deve
pensare sé stessa, già prima, come insieme di individui liberi ed
eguali che si relazionano attraverso la forma meramente
procedurale del reciproco consenso.
In altri termini, il diritto moderno suppone una società che si pensa
già come società giuridica, ossia che si istituisce a partire
dall’istituzione del suo stesso diritto.
48
Cap. V.-
Dallo Stato di diritto allo Stato sociale.
1.-Gli inconvenienti del sistema giuridico dello Stato di
diritto.
Il carattere chiuso del sistema giuridico moderno,
autofondato ed autonomo, presenta un duplice ordine di
inconvenienti:
1.1.- Il primo attiene alla sua stabilità: la perdita di una
misura esterna, universale e fondante, quale era la legge naturale
espone il diritto alla contingenza politica:
- alla complessità del mondo il diritto non può più
contrapporre la volontà divina o l’ordine naturale delle
cose;
- a misura che questo diritto si rappresenta come volontà
generale, come espressione della sovranità popolare si
espone al mutamento degli orientamenti politici che
maturano nella comunità dei cittadini.
1.2.- Il secondo attiene alle sue capacità di adeguamento:
la chiusura autoreferenziale del sistema giuridico moderna
implica la perdita di quell’alimentazione esterna, implicita
nell’apertura del diritto premoderno agli altri sistemi sociali, che
ne permetteva un’evoluzione coordinata: l’autonomia del diritto
dagli altri sistemi parziali della società (= politica, morale,
costume, economia) gli preclude di poter far diretto riferimento
ad essi, e così di tener dietro automaticamente alle
modificazioni che in essi si vengono verificando.
2.- Le risorse del sistema giuridico moderno.
49
A questi inconvenienti il diritto moderno è in grado di
contrapporre due risorse, due dispositivi atti a far fronte alle
nuove complessità, assicurandosi per altra via quella stabilità e
flessibilità che la sua chiusura sembrerebbe negargli.
2.1.- Il primo di questi dispositivi è mutuato dalla
tradizione giuridica, ed è costituito dall’interpretazione della
legge.
Già nel corso del medio-evo i giuristi erano stati
chiamati a risolvere il problema di adattare un corpo di regole,
quelle del diritto romano, ad un assetto sociale profondamente
modificato. Ciò essi avevano fatto elaborando un corpo di
tecniche di manipolazione dei testi, che ora rimanevano a
disposizione della scienza giuridica per il nuovo compito che le
veniva assegnato dal processo di positivizzazione del diritto.
Anzi, l’autonomia del diritto, la sua indipendenza dalla mera
voluntas del sovrano potenziavano queste tecniche a misura che
esoneravano i testi normativi dal vincolo diretto all’esercizio
concreto del potere sovrano: la positivizzazione del diritto,
precisamente, generalizzava ed amplificava l’espediente
medievale di svincolare il diritto romano dalla contingenza
rappresentandolo come ratio scripta.
2.2.- Il secondo dispositivo è costituito dalla stessa
struttura autofondata del diritto, e dunque dalla sua illimitata
riproducibilità.
Il carattere autofondato del diritto moderno consiste nel
fatto che la legge attinge la sua legittimità / validità soltanto in
sé stessa, ossia nella circostanza che ogni norma del sistema
giuridico sia stata posta in conformità ad una norma
gerarchicamente superiore, che pone le condizioni della sua
produzione. Ciò implica che è specificamente proprio del diritto
moderno la previsione di norme sul procedimento
legislativo: chiuso alla società ed agli altri sistemi, il diritto
moderno è assolutamente aperto a sé stesso, ossia al proprio
cambiamento nella forma dell’introduzione di nuove regole
giuridiche. Questa capacità autoriproduttiva lo apre, appunto, al
50
mutamento, e dunque all’adeguamento alle modificazioni degli
altri sistemi parziali e della società nel suo complesso.
2.3.- Rispetto a questi dispositivi di auto-apertura
occorre, allora, chiarire come funzionino, da cosa siano agiti
ed entro che limiti si possano sviluppare.
3.- La razionalità formale, il mercato e la politica.
Per comprendere adeguatamente dinamiche e limiti dei
percorsi evolutivi del diritto moderno è necessario muovere
dalla razionalità che presiede alla sua costituzione autonoma e
dal rapporto in cui essa si pone, soprattutto, con il sistema
economico e con il sistema politico. Ed infatti, il rapporto, al
tempo stesso di distinzione e implicazione, che nella società
moderna si istituisce tra diritto economia e politica è il terreno
su quale, necessariamente, vengono ad incidere queste
dinamiche evolutive. Mentre il senso della razionalità formale,
che struttura tale rapporto, costituisce anche il limite di tali
dinamiche.
Come si è detto, il nuovo diritto, il diritto “eguale”
“generale” e “astratto” delle Dichiarazioni dei diritti e delle
Codificazioni ottocentesche, si caratterizza, fondamentalmente,
per non prescrivere un contenuto determinato dei rapporti
tra i consociati, ma per istituire una razionalità giuridica
formale.
Come si è detto, infatti, la ragione cui si informa un tale
sistema è non contenutistica o materiale ma formale, cioè non
risiede nel contenuto materiale del comando normativo ma è
affidata alla forma del reciproco accordo, che esso impone alle
relazioni individuali: è giusto, ossia giuridicamente razionale,
ciò che è stato liberamente voluto, ciò che è rivestito dalla
forma del consenso.
Ma - come si è osservato - una razionalità giuridica
formale istituisce, a sua volta, una razionalità sociale
procedurale: l’assetto sociale razionale è, in tale veduta, quello
51
che si produce spontaneamente per effetto dell’osservanza delle
procedure del reciproco accordo.
Questa razionalità giuridica formale e questa razionalità
sociale procedurale, però, istituiscono, a loro volta, le
condizioni di operatività della razionalità economica
mercantile: il diritto formale, dunque, istituisce l’economia di
mercato.
Ma la contestuale istituzione di tutte e tre queste
razionalità, in realtà, si fonda su di una grande operazione, che
consiste nella separazione del sistema economico dal
sistema politico e da quello etico:
il diritto eguale (generale e astratto, autonomo e autofondato)
è il “luogo” ove si istituisce la separazione di tali sistemi e la
forma che ne garantisce il funzionamento indipendente.
4.- Gli sviluppi contraddittori del modello della razionalità
formale.
Questo senso generale della razionalità formale mostra,
ad un tempo, il luogo ove si possono manifestare le esigenze di
mutamento ed il modo in cui il sistema giuridico può farvi
fronte.
Il luogo principale dello sviluppo contraddittorio della
razionalità formale è costituito dal rapporto tra economia e
politica.
4.1.- Gli esiti contraddittori della regolazione mercantile dell’economia.
Il sistema economico del libero mercato è un sistema
intrinsecamente dinamico ed evolutivo:
- il motore di questo dinamismo è la concorrenza;
- lo sviluppo della concorrenza procura un rapido e radicale
mutamento degli assetti produttivi, delle condizioni di
funzionamento del mercato e, per conseguenza, della
stratificazione sociale e delle forme di coscienza.
Questi mutamenti si possono sintetizzare in tre punti:
- lo sviluppo dei processi di concentrazione e di
centralizzazione dei capitali produttivi, che conducono
52
all’industrializzazione dell’economia ed alla formazione della
grande impresa;
- l’evoluzione monopolistica del mercato: la concorrenza
produce l’emarginazione delle imprese più deboli e la loro
espulsione dal mercato, e perciò produce la formazione dei
grandi monopoli;
- la crescita della polarizzazione sociale: la meccanizzazione
dell’agricoltura e lo sviluppo tecnico dell’industria
producono, rispettivamente, l’urbanizzazione delle masse
contadine e la crescita del proletariato industriale.
Il carattere contraddittorio di questi esiti del modello
formal-mercantile si coglie su due piani:
- il mercato non mantiene le promesse sulla cui base era
stato ideato e giunge ad erodere le sue stesse premesse: la
«mano invisibile» avrebbe dovuto distribuire gli investimenti
secondo i bisogni sociali, avrebbe dovuto procurare la
continua discesa dei prezzi e avrebbe dovuto ridistribuire la
ricchezza e dispensare il benessere a tutti; il funzionamento
concreto del mercato, invece, accresce le diseguaglianze
produttive e sociali, accresce le dipendenze economiche e
moltiplica la povertà relativa;
- allo stesso tempo, urbanizzazione, proletarizzazione e
grande impresa producono le condizioni di una progressiva
omologazione degli interessi degli strati sociali coinvolti
in questi processi ed il conseguente sviluppo del senso di
appartenenza e di solidarietà degli interessi così omologati.
4.2.- Le spinte contraddittorie del sistema giuridico.
Questo radicale mutamento degli assetti economici e
sociali disvela uno scenario che appare inadempiente
rispetto alle promesse di nuova società insite nei principi
costitutivi dello stesso diritto moderno.
Il diritto moderno si istituisce a partire dai principi di
libertà ed eguaglianza, costruiti sì come libertà giuridica ed
eguaglianza formale ma con la prospettiva che il libero gioco del
mercato sarebbe valso a dar loro adeguati contenuti materiali.
Già alla fine dell’’800, quasi un secolo di esperienza di Stato di
53
diritto mostra, invece, che l’eguaglianza formale moltiplica
le diseguaglianze materiali e che la libertà giuridica
riproduce nuove forme di dipendenza.
Ma la delusione verso questi esiti contraddittori della
razionalità formale trova ragioni, anche, all’interno dello stesso
sistema giuridico moderno:
- esso, per la prima volta nella storia, sancisce il principio
dell’eguaglianza di tutti i cittadini, e dunque introduce un
principio che pretende di inverarsi, un principio che, una
volta affermato, si presta a divenire anche misura dello
stesso diritto chiedendo che l’eguaglianza giuridica tenda
all’eguaglianza di fatto, all’eguaglianza materiale o
sostanziale;
- esso sancisce anche il carattere positivo dei diritti
individuali, ma tale carattere ne postula la disponibilità da
parte della legge, e dunque ne mette in discussione
l’intangibilità sottoponendoli alla «volontà generale», allo
Stato, e perciò alla politica.
Dai principi stessi del sistema giuridico moderno e dello
Stato di diritto, dunque, si sviluppano aspettative di eguaglianza
materiale e di intervento pubblico nella distribuzione della
ricchezza in grado di dar forma alle delusioni prodotte dai
processi economici ed alle aspirazioni dei nuovi interessi
omologati da tali processi.
4.3.- I mutamenti dell’orizzonte di senso.
Economia e politica accumulano nuove complessità a
ridosso del sistema giuridico e della razionalità processuale da
esso istituita. Ma non era detto che tali nuove complessità
avrebbero dovuto metter capo necessariamente ad una nuova
fase del diritto e dello Stato moderni.
I dispositivi di mercato, in realtà, sarebbero stati in
grado, attraverso le crisi economiche, di semplificare queste
complessità e di innescare nuovi processi espansivi
dell’economia e nuove ristratificazioni sociali.
Dunque, la crisi, cui questi processi inevitabilmente misero
capo, aveva, in astratto, due sbocchi:
54
- il rilancio del libero mercato, oppure
- una modificazione del confine tra economia e politica.
Se di queste due vie fu la seconda a prevalere, ciò avvenne
non per una qualche necessità storica ma solo perché si
produsse una modificazione dell’orizzonte di senso che
aveva sorretto lo sviluppo dello Stato liberale e della nuova
società.
Il passaggio dallo Stato liberale di diritto allo Stato sociale
ebbe origine dalla circostanza che la crisi economica
intersecò la crisi dell’individualismo proprietario, su cui la
società liberale si era retta e si reggeva. I costi sociali dei
processi economici e delle loro crisi apparvero insopportabili
soprattutto perché si modificò la sensibilità sociale verso di essi,
perché mutò l’orizzonte di senso secondo il quale ne veniva
misurata la tollerabilità.
Questa modificazione dell’orizzonte di senso appare sulla
scena della società moderna con il nome di «questione
sociale», la quale si diede come critica dell’individualismo, della
società liberale e dello Stato di diritto nel nome della «giustizia
sociale».
Eguaglianza ed autoderminazione , che erano stati
affermati come principi validi solo nell’ambito giuridico,
vengono, ora, assunti come principi universali, e cioè come
principi che debbono attraversare tutta la società in tutte le sue
articolazioni, e che, perciò, dal diritto debbono estendersi anche
all’economia ed al sistema politico.
Così, da un lato, all’eguaglianza formale si giustappone
l’eguaglianza materiale ed alla libertà giuridica la libertà dal
bisogno nel nome della giustizia sociale. E, dall’altro,
all’autodeterminazione individuale (= contrattuale) si
giustappone l’autodeterminazione sociale nel nome del
suffragio universale e del primato della politica.
5.- Le modificazioni del diritto e la formazione dello Stato
sociale.
55
Le esigenze di mutamento, promosse dai processi
economici e dai mutamenti dell’orizzonte sociale, mettevano in
discussione, innanzitutto, la separazione tra economia e
politica che costituiva il senso fondamentale del diritto
moderno e della nuova società nata dall’abbattimento
dell’Antico regime.
Queste esigenze, infatti, spingevano verso la
rimaterializzazione del sistema giuridico, cioè verso la
sostituzione o – meglio – verso la correzione della sua
razionalità formale con la razionalità materiale promossa dalla
politica.
Se le delusioni traevano origine dagli esiti contraddittori
della razionalità mercantile, allora il rimedio non poteva che
trovarsi nella sostituzione o nella correzione dei dispositivi
mercantili con dispositivi che organizzassero la circolazione e
distribuzione della ricchezza secondo paradigmi politici.
Ma siccome la razionalità mercantile era istituita dalla
razionalità formale del diritto, e cioè dall’indifferenza del diritto
alle condizioni ed ai contenuti materiali dei suoi soggetti e dei
suoi processi, allora il rimedio contro gli esiti distorti della
razionalità mercantile non poteva che consistere nella
produzione di un nuovo diritto che attribuisse rilevanza a tali
differenze materiali, e che, perciò, si desse come diritto
diseguale., cioè come diritto che non trattava più in modo
eguale situazioni differenti (ad es., che trattava
indifferentemente come “contraenti” tanto il ricco che il
povero) ma che, invece, intraprendeva a trattare tali situazioni
differenti in modo diverso (ad es., distinguendo tra contraenti /
datori di lavoro, proprietari, ecc. e contraenti / lavoratori,
contadini ecc. e proteggendo questi ultimi mediante limitazioni
dello strapotere contrattuale dei primi).
Ad un tale diritto diseguale fu, perciò, affidato il
compito di soppiantare l’originaria separazione di economia e
politica e di sottoporre il libero mercato ad una ratio politica.
6.- I dispositivi di compatibilità tra razionalità formale e
razionalità politica.
56
Questa rimaterializzazione del diritto, a misura che non
intendeva soppiantare l’intero edificio della società moderna, ne
doveva subire i limiti e ne doveva organizzare le
compatibilità.
Questo compito appare affidato a due dispositivi propri
della struttura sistemica del diritto moderno.
6.1.- La differenziazione sotto-sistemica del diritto moderno.
L’unico modo, che il sistema giuridico moderno ha a
disposizione per affrontare questo processo di materializzazione
senza negare allo stesso tempo sé stesso, è quello di attivare la
propria differenziazione in sotto-sistemi speciali.
L’introduzione di principi regolativi non più formali ma
sostanziali rimane compatibile con la permanenza in generale
della separazione tra economia e politica, e dunque con la
razionalità procedurale della società moderna, solo a condizione
che la ratio politica, recata da tali nuovi principi, non sia
generalmente sostitutiva della ratio formale del sistema giuridico
moderno, ma sia confinata entro ambiti normativamente
determinati.
L’ingresso della razionalità politica nell’economia è reso
così compatibile con la permanenza dell’economia di mercato
scorporando dal sistema generale del diritto eguale (= dal
sistema del diritto privato) ambiti di relazioni materiali che
vengono assegnati a sotto-sistemi giuridici che li regolano
secondo logiche non più formali ma politiche.
Accanto ai codici si sviluppano, in questa direzione,
costellazioni di Legislazioni speciali che sottraggono alla
razionalità formale del principio di autodeterminazione privata i
rapporti di lavoro subordinato (= Diritto del lavoro), i rapporti
relativi alla terra (= Diritto agrario), i rapporti relativi al capitale
finanziario (= Diritto bancario), i rapporti relativi alla proprietà
urbana (= Diritto urbanistico e diritto delle locazioni), ecc.
In ciascuno di questi sotto-sistemi vigono, così, principi
regolativi diversi dal generale principio di autodeterminazione,
ma la loro introduzione rimane con esso compatibile proprio in
57
quanto la loro vigenza è confinata in ambiti rigidamente
predeterminati.
Rispetto alla generale razionalità mercantile dello Stato
di diritto i principi della legislazione speciale del nuovo Stato
sociale corrispondono ad una logica reattiva, parziale e
sostantiva: reattiva, perché suppongono il mercato e si
propongono di correggerlo; parziale, perché non lo
soppiantano ma si limitano a sezionarlo e ad investire, perciò,
solo suoi settori determinati; e sostantiva, perché per sezionare
tali ambiti e per disciplinarli si avvalgono di criteri materiali di
regolazione giuridica. Ma soprattutto sono destinati ad operare
secondo una logica aggiuntiva, cioè non soppiantando la
razionalità mercantile ma semplicemente aggiungendosi ad essa
in ambiti circoscritti e mantenendola, invece, come razionalità
generale.
6.2.- I dispositivi di relazionamento sistemico.
La conformazione meramente aggiuntiva della
legislazione speciale, tuttavia, non garantisce che la costellazione
dei sotto-sistemi non soffochi il modello generale della
razionalità mercantile.
La centralità sovraordinata, che per via dei dispositivi di
differenziazione, il Welfare State conserva al mercato si regge sul
presupposto che quanto venga da esso distribuito «fuori
mercato» non sopravanzi il surplus creato dall’economia di
mercato: la soglia del distribuibile politicamente nei sistemi
speciali è data dall’accumulazione realizzata nel sistema centrale.
All’osservanza di questo limite materiale dello Stato
sociale sono deputati sofisticati sistemi di relazionamento intesi
a controllare sistematicamente i valori macro-economici ed a
governare la comunicazione tra mercato e assistenza secondo
compatibilità.
I principali strumenti di questo relazionamento sono
costituiti, da un lato, dal bilancio dello Stato e dai sistemi di
rilevamento del trend economico (pil, tasso di crescita degli
investimenti, andamento dell’occupazione, ecc.): attraverso il
primo tutte le spese si confrontono sistematicamente tra loro e
58
con le entrate; attraverso i secondi si verifica che il prelievo
fiscale si determini in misura compatibile con il fabbisogno di
risorse che il sistema economico richiede sia conservato al
circuito privato. E dall’altro dalla flessibilizzazione delle entrate
e della spesa e dalle manovre monetarie, attraverso le quali si
correggono gli sconfinamenti dai confini della compatibilità.
7.- La crisi dello Stato sociale.
Il processo che si è appena descritto ha dato corpo non
solo ad un’intera nuova fase del diritto ma, più in generale, ad
un’intera fase dello Stato e della Società moderni: l’intero ‘900 si
presenta come nascita e sviluppo dell’interventismo statale nei
rapporti economici privati, come avvento ed espansione dello
Stato sociale.
Nell’ultimo trentennio del secolo appena trascorso,
però, questo quadro sembra entrare in crisi: i sistemi della
legislazione speciale via via regrediscono su tutti i fronti e lo
Stato sociale si ritrova esposto a critiche sempre più radicali e
vede ridursi drasticamente la base del suo consenso.
A questa crisi concorrono due ordini di fattori.
Il primo ordine di fattori è costituito dai processi di
globalizzazione dei mercati e delle società e di
integrazione giuridico-economica dell’Europa che segnano
la fine del secolo e l’inizio del nuovo millennio.
L’intero sistema di intervento dello Stato nei rapporti
economici si fondava sul controllo del ciclo economico
attraverso la manovra della spesa e della moneta.
Globalizzazione e integrazione operano su entrambi questi due
piani:
- per un verso, producono una sorta di autonomizzazione
della concorrenza dal ciclo economico nazionale e rendono
tale ciclo in qualche misura non più controllabile: in un
mercato sempre più globalizzato, infatti, la concorrenza
“nazionale” è sempre più alimentata da cicli economici
“esterni”, mentre la manovra della spesa e della moneta a
59
vantaggio del sistema economico nazionale rimane
praticabile solo con crescente difficoltà;
- per un altro verso, riducono drasticamente la sovranità
economica nazionale, contenendo i poteri di spesa dello
Stato nazionale ed i suoi poteri di intervento selettivo
sull’economia e sul mercato e facendo venir meno la
possibilità delle manovre monetarie attraverso l’istituzione
della moneta unica.
Il secondo ordine di fattori è costituito dal carattere
“esclusivo” dello Stato sociale e dall’inflazione della domanda di
ausili che ne discende.
La legislazione assistenziale non può non determinare
effetti esclusivi: a misura che essa si estende a nuove categorie
sociali, si accresce il senso di esclusione delle categorie che essa
non contempla; e si accresce, di conseguenza, la domanda di
inclusione dei ceti e delle categorie che non partecipano ai suoi
benefici.
La neutralizzazione di tale “effetto di esclusione”, che di per
sé costituisce un carattere proprio e costante dell’intervento
pubblico, era affidata, essenzialmente, al credito sociale di quel
senso fondamentale del Welfare State, per cui, da un lato, il
benessere dei cittadini è un compito proprio dello Stato e,
dall’altro, il perseguimento di questo compito trova
inevitabilmente un limite nel mercato, che è deputato a
finanziare l’assistenza e che, però, al tempo stesso costituisce un
limite insuperabile alla sua espansione: la condivisione di questo
senso fondamentale, infatti, agiva come sistema di
autocontrollo delle rivendicazioni sociali.
Se, allora, lo Stato sociale appare ormai in ritirata pressochè
generale, cio non dipende dalla sua sopravvenuta
impraticabilità: riassestamenti dell’intervento pubblico atti a
preservare, ridefinendolo, lo Stato sociale non sembrerebbero
del tutto impossibili; dipende piuttosto dalla sopravvenuta
svalutazione del suo credito sociale: si è svalutata l’idea che “ci
si salva tutti insieme” e sembra divenuta dominante l’opposta
idea che “ciascuno deve provare a salvarsi da solo”.
Il nuovo, che sembra prendere il suo posto e che viene
invocato a gran voce, non è altro, però, che la riespansione del
60
diritto formale e della razionalità mercatile che gli
corrisponde.
L’idea, oggi prevalente nelle istanze ove si decide della
disciplina del mercato e degli scambi, secondo cui il benessere
generale può essere perseguito solo espandendo il mercato, e
dunque preservando ed ampliando la concorrenza, non è altro
che la riproposizione della “mano invisibile” di Smith e Ricardo
che risolve, miracolosamente, il libero perseguimento dell’utile
individuale nell’utile dell’intera società.
Alla dottrina del liberismo classico, dunque, si aggiunge solo
l’idea che le delusioni dell’economia mercantile non
provengono da un suo limite intrinseco bensì dal mancato
funzionamento dell’economia reale secondo il modello proprio
del mercato. Il compito del diritto e dello Stato si ridetermina,
così, in un insieme di interventi volti, da un lato, ad assicurare
che il funzionamento del mercato e della concorrenza non sia
distorto dallo sviluppo di posizioni monopolistiche e dalla
formazione di intese fra i produttori (= disciplina Antitrust) e,
dall’altro, a correggere le disparità di potere negoziale tra i
contraenti atti a squilibrare le ragioni di scambio (= discipline
dei contratti del consumatore, della subfornitura, ecc.).
Ma ciò che conta dal punto di vista delle diritto e delle sue
trasformazioni è che questo nuovo trend si risolve da un lato
nella regressione dei sistemi di legislazione speciale e nella
corrispondente riespansione dei principi tradizionali della
libertà contrattuale e dell’autonomia dei privati.
Se nella seconda metà del ‘900 si poteva proclamare la
morte dei Codici civili e la loro sostituzione con i sistemi
policentrici delle legislazioni speciali, il nuovo secolo si inaugura
con l’idea di un nuovo Codice civile europeo, ossia con una
nuova universalizzazione del diritto eguale e della ratio
contrattuale che avevano animato le codificazioni dell’’800.
Ma che questo sia proprio il destino del diritto (privato)
occidentale non sembra, poi, del tutto sicuro: la resistenza della
società contro lo smantellamento dello Stato sociale ha ripreso
lena ed ha avuto occasione di manifestarsi, tra l’altro, in
occasione dei referendum popolari sul progetto di Costituzione
europea.
61
Cap. VI.-
L’interpretazione come creazione cognitiva-
1.- Il problema dell’interpretazione
Con l’interpretazione si sostituisce ad un enunciato incerto
una proposizione certa.
Con l’interpretazione, perciò, si pone quindi una regola
nuova, non dal punto di vista formale (poichè questa regola
appare ricavata da una norma già formalmente “posta”
nell’ordinamento) ma dal punto di vista contenutistico.
Il problema dell’interpretazione è:
- da dove proviene questa regola
- cosa autorizza l’interprete a porla
Le soluzioni che storicamente sono state date dal
pensiero giuridico a queste domande sono contenute entro
un’alternativa secca tra carattere “cognitivo” e carattere
“creativo” dell’interpretazione:
a) l’interprete svela un senso implicito della legge, che
già c’era;
b) l’interprete crea un significato nuovo, che prima non
c’era.
Dalla risposta a questo problema (dalla scelta tra queste
due possibili soluzioni) dipende il senso e la funzione che si
attribuiscono al diritto: il riconoscimento di un carattere
creativo all’interpretazione supera, infatti, la distinzione tra
legislazione e giurisdizione e così arreca un vulnus all’autonomia
del diritto (non sarebbe più “diritto” ciò che il sistema giuridico,
sulla base di condizioni autonomamente decise, stabilisce che
sia diritto, ma ciò che di volta in volta l’interprete decide che lo
sia, creando nuove regole).
2.- La soluzione tradizionale
62
Il pensiero giuridico tradizionale e più risalente attribuisce
all’interpretazione carattere essenzialmente cognitivo:
l’interprete si limita a portare alla luce un significato già presente
nella legge, che occorre soltanto cercare e riconoscere.
Perché l’interpretazione possa essere lo “svelamento” di un
senso implicito nella legge positiva occorrono, però, due
condizioni:
a) che il diritto positivo sia manifestazione
incompleta ed imperfetta di un “quid” che lo
precede, che sta “oltre” e “prima” della legge
positiva;
b) che esista una procedimento logico-razionale
sulla base del quale questo quid sia attingibile
(conoscibile).
Queste due condizioni si riassumono nella concezione
della scientificità dell’interpretazione. La teoria
dell’interpretazione che soddisfi queste due condizioni consente
di attribuire carattere scientifico all’attività interpretativa.
Ed infatti, poiché la scienza è conoscenza di ciò che già
esiste, l’interpretazione può essere scientifica solo se si dà un
quid più esteso del diritto positivo, che lo precede e che può
essere interpellato per avere informazioni sul diritto positivo.
Questo quid, questo a priori (= che viene prima) del
diritto positivo è stato cercato nei due grandi fondamenti di
ogni a priori filosofico: Spirito e Natura.
Essi – come si sa - hanno dato luogo ai due grandi
orientamenti che ancora dominano la dottrina e la
giurisprudenza: la “Scuola dei concetti” e la “Scuola degli
interessi”.
Secondo la “Scuola dei concetti” si dà (nel regno dello
spirito) un sistema di essenze giuridiche, di concetti universali,
del quale il diritto positivo è solo una manifestazione
imperfetta. Le imperfezioni del diritto positivo, le sue oscurità e
le sue lacune, possono, allora, essere corrette e colpmate
risalendo ai concetti dei quali esso è l’espressione mondana.
Secondo la “Scuola degli interessi”, invece, si dà già,
nella realtà, un sistema delle relazioni della vita, costituito dagli
interessi e dai fini della società, che operano come “causa” del
63
diritto positivo. Le oscurità e le lacune del diritto positivo
possono, perciò, essere corrette e colmate risalendo agli
interessi ed ai fini che sono alla loro origine ed alla
composizione che trovano nella società.
3.- La svolta giusliberistica
In entrambe tali due risalenti versioni, la concezione
tradizionale dell’interpretazione si fonda su:
c) la postulazione del sistema (concettuale o
materiale) come antecedente della legge;
d) la conoscibilità (per via della ragione o dei sensi)
di questo sistema;
e) la conseguente cognitività delle operazioni che,
ricostruendo questo sistema e sviluppandolo
attraverso la logica (= argomenti logici),
mettono in chiaro la ratio (concettuale o
materiale) della legge e perciò possono integrarla
ove si mostri deficiente.
Questi postulati sistematici e cognitivi (ossia, la
precedenza sulla legge di un sistema concettuale o organico e la
sua conoscibilità attraverso la logica) sono stati oggetto di critica
nel corso di tutto il novecento.
L’epistemologia contemporanea - si è osservato - ha
dimostrato l’infondatezza di ogni “oltre” e perciò l’infondatezza
di ogni ragionamento che supponga che si dia e sia conoscibile
un a priori della legge e quindi un senso implicito di questa in
rapporto al quale l’interpretazione si possa dire “vera” o “falsa”.
Così, però, è screditato il classico oltre metafisico della
“Scuola dei concetti”: non si dà alcuna verità di idee e concetti
universali, poiché questi non sono suscettibili di essere
sottoposti ai procedimenti di verificazione della scienza (cosa
prova empiricamente la verità di un concetto ?).
Ma è anche screditato l’ oltre empirico della “Scuola degli
interessi o teleologica”: motivi e scopi della legge non sono
“fatti naturali” empiricamente verificabili ed ancor meno lo
64
sono i processi causali che essi avrebbero innescato, ma sono
finzioni scientificamente inverificabili.
E vi è di più: non si dà, in ogni caso, una verità dei “fatti
causali” che si possa contrapporre al “fatto”, all’effettività
dell’interpretazione.
Questa critica, che, dapprima, si era sviluppata solo in
sede di teoria generale del diritto, si è ora estesa alla dommatica
ed alla stessa giurisprudenza.
La concezione creativa dell’interpretazione, cui questa
critica dell’impostazione tradizionale mette capo, va oggi sotto
due nomi: il nome di “dottrina del diritto vivente” e quello di
“nichilismo giuridico”.
4.- L’interpretazione tra ritorno giusnaturalistico e
nichlismo giuridico
L’idea che la “dottrina del diritto vivente” propone è
che interpretando la legge i giudici e i dottori non si
limiterebbero a mostrare un senso nascosto, ma che si dava già
prima, bensì si muoverebbero liberamente alla ricerca della
“soluzione giusta” del caso, guidati esclusivamente dal loro
senso della giustizia o facendosi interpreti del sentire sociale
diffuso, dell’idea di giustizia socialmente condivisa.
Ai giuristi la critica della concezione cognitiva
dell’interpretazione, per lo più, non basta: essi utilizzano più o
meno adeguatamente questa parte destruens della filosofia e della
teoria generale del diritto, ma hanno bisogno di una parte
costruens.
Se l’interpretazione procede indipendentemente dalla
volontà della legge (e da una razionalità universale o da una
oggettività sociale), cosa legittima i giudici a decidere in un
modo o nell’altro ?
La parte destruens distrugge anche la legittimazione della
giurisprudenza e ne mina il ruolo sociale e istituzionale: sulla
base di che cosa si può pretendere che i consociati si sentano
vincolati alla volontà dei giudici se questi non sono più la bocca
65
della volontà generale (o i custodi di una sapienza universale o
di un sapere sociale oggettivo) ?
Per supplire a questo deficit di legittimazione che metterebbe in
discussione le basi dell’ordine sociale i giuristi si sono cercati
una nuova legittimazione che sostituisse l’ormai discreditato
“sistema”.
E la hanno trovata nel vecchio giusnaturalismo o, piuttosto,
in un suo surrogato minore, la “tensione alla giusta soluzione
del caso”: ogni sentenza sarebbe un tentativo di trovare la giusta
soluzione del caso; sicchè sarebbe proprio questa ricerca della
giustizia che legittimerebbe la giurisprudenza e che darebbe
conto della vincolatività delle sue decisioni.
Quest’approccio, che muove dalla filosofia ermeneutica, per
togliere l’interpretazione dall’arbitrio volontaristico segue due
percorsi diversi che, però, la conducono al medesimo esito:
quello di precipitare in una fondazione universalistica dei valori
che contraddice in radice la sua originaria matrice antimetafisica.
(a) Il primo, e più risalente, percorso è quello che assume
a necessario presupposto dell’accessibilità del testo la
“familiarità” tra esso ed il suo interprete e che fonda
tale “familiarità” sull’interrogazione di un “oltre” ed
“altro” extra-positivo, che è fatto consistere nel Sache-
Recht, ossia nella giustizia o – il che è lo stesso – nella
“giusta soluzione del caso”.
Con il che la non-arbitrarietà dell’interpretazione
finisce per poggiare su di un duplice presupposto:
quello che il diritto positivo si dia come un tentativo
verso la giustizia universale e quello che si diano e
siano tentativamente accessibili verità universalmente
valide.
(b) Il secondo percorso, ormai più diffuso, è quello che
muove dal rapporto dell’interpretazione con la
tradizione e con la “comunità di linguaggio” entro la
quale si sviluppa, e soprattutto dal salto qualitativo che
tale necessaria mediazione le imporrebbe: il darsi
dell’interpretazione entro una “comunità
interpretante”, la comunità giuridica, la sottoporrebbe
66
al vincolo dell’argomentazione, che necessariamente la
radicherebbe nella “razionalità discorsiva” e nella
“ragion pratica”.
Ma il guaio della “ragione discorsiva” è che essa è,
essenzialmente, una ragione procedurale. E che la
“ragione procedurale” incappa in due inconvenienti:
- per un verso, suppone una incontrovertibilità
delle sue regole procedurali che, in effetti, non è
assolutamente in grado di dimostrare;
- per un altro verso, fondando la
verità/razionalità sul consenso, fa discendere la
“validità” dalla “fatticità”.
Essa, perciò, esita inevitabilmente nel corto-circuito di
fatto e valore, sulla base del quale, tradizionalmente, la
metafisica ha provato ad universalizzare la contingenza.
Ma così si è tornati al punto di partenza: questa giustizia
non è meno metafisica del diritto naturale e dei suoi eredi
moderni: il sistema concettuale e quello materiale.
Apparentemente diverso e più aggiornato è l’approccio
nichilistico al diritto e all’interpretazione.
Esso muove dal postulato dell’inaccessibilità del testo e
da un radicale scetticismo semantico:
Rifiutando ogni credenza in fondamenta “stabili e
transcontestuali” della conoscenza, esso assume che:
- non c’è corrispondenza necessaria tra linguaggio e mondo
reale;
- proposizioni, interpretazioni e testi sono tutti, essi stessi,
allo stesso modo “costruzioni sociali”;
- in quanto costruzioni sociali consistono in “giochi
linguistici” determinati dal potere;
- il linguaggio e le teorie della cultura giuridica moderna, in
quanto anch’essi teatri di siffatti giochi linguistici, tentano di
nascondere, emarginare ed omogeneizzare la natura
frammentata e caotica delle attuali società multiculturali;
- una cultura giuridica, che muova da queste premesse
scettiche, non può che rinunciare all’idea illuminista di una
67
teoria giuridica normativa e regolativa e concepire
l’interpretazione come un’attività meramente affabulatoria;
- in quanto attività affabulatoria, l’interpretazione appartiene
al regno della “retorica”, della “persuasione”: non disvela un
significato implicito nella legge ma gli attribuisce ex novo
un significato che questa non ha ed i suoi argomenti non
sono altro che tecniche di persuasione intese a far accettare
il significato che così alla legge è attribuito.
Né vale a contenere il carattere arbitrario, che così
assumerebbe l’interpretazione, la considerazione che la
determinazione “volontaristica”, che presiederebbe al il
rapporto tra interprete e testo, dovrebbe, comunque, esercitarsi
entro lo spettro della “tolleranza linguistica” dell’enunciato
normativo.
Anche questo, infatti, è un limite solo apparente. La mera
tolleranza linguistica, infatti, non sembra in grado di reggere, da
sola, l’efficacia dell’affabulazione: se il passaggio dai significati
possibili al significato prescelto è arbitrario, lo scavalcamento
del limite dei significati possibili si colloca sul medesimo piano
di arbitrarietà.
La critica del tradizionale cognitivismo interpretativo
sembra così naufragare nel ritorno a versioni ingenue o
mascherate della vecchia dottrina del diritto naturale o nel mero
arbitrio giudiziale.
Quest’esito della contemporanea teoria dell’interpretazione
pone il problema in questi termini:
- si tratta di cercare un paradigma che sia in grado di
comprendere la natura dell’attività interpretativa e lo
specifico rapporto tra positum e novum che essa è chiamata a
mediare, rinunciando a postulare un “oltre” cognitivamente
o metodologicamente attingibile;
- finché si resta dentro le concettualità e le polarizzazioni
della tradizione, la teoria dell’interpretazione rischia di
rimanere avvitata in un circolo;
68
- da questo situazione di stallo si viene fuori se si fa un salto
culturale e si assumono un nuovo concetto di sistema ed
una nuova concezione di interpretazione.
5.- Il sistema e l’interpretazione
La tradizione suppone:
- che il sistema sia precedente ed esterno alla legge: sistema
delle essenze (dei concetti) o delle relazioni della vita;
- che l’interpretazione a sua volta sia anch’essa un’attività
esterna al sistema e separata da esso;
Questi presupposti possono essere messi in discussione
sulla base di una ricomprensione del diritto che muova dalla
teoria generale dei sistemi: questa, infatti, consente di mettere a
punto un nuovo concetto di sistema ed una nuova concezione
dell’interpretazione.
I postulati di questa nuova concezione del sistema possono
essere così brevemente descritti:
a) Il sistema non è un “a priori” della legge, ma si istituisce a partire da
un significato nucleare, da una misura fondamentale (una decisione
fondamentale), da una interpretazione del mondo oggettivata, che non è
estranea alla legge, che non viene prima di essa ma che è incorporata
nella sua forma:
Il significato, la misura non vengono prima della legge, non
ne sono un antecedente causale ma si istituiscono insieme con
la legge;
Questo significato, questa misura non risultano, in ultima
istanza, dal contenuto della legge, ma soprattutto dalla sua
forma “eguale ed astratta” e dai principi di eguaglianza e libertà,
che essa implica, e dai principi del consenso e dell’economia di
mercato, che ne discendono.
Questa forma è, perciò, una forma sensata, una forma che
istituisce un principio materiale di organizzazione della società,
69
strutturato attorno alla logica procedurale del consenso ed
all’organizzazione dell’economia come “affare privato” e al suo
governo secondo il dispositivo del mercato.
Questo principio materiale di organizzazione della società
conferisce al diritto natura funzionale.
Il diritto consiste in un insieme di strutture (principalmente
le norme) deputate a risolvere i problemi del mondo, della
società, secondo questo senso, che non consiste in un fine
materiale (il bene dell’uomo, il giusto), ma nella agnostica
disponibilità a seguire il fine prescelto da ogni individuo:
al diritto non è assegnato altro fine che quello di governare
proceduralmente l’anarchia dei fini di ognuno, l’incondizionato
dispiegarsi dell’autodeterminazione degli individui privati.
Per questo il diritto nella modernità si dà come diritto
procedurale, come insieme non di fini ma di procedure per
finalità indefinite e cioè come mezzo: come sistema funzionale.
Ma questo senso nucleare non è ancora un sistema e non ha
niente a che vedere con il modo nel quale erano fatti operare il
“sistemi” della tradizione:
- non è un sistema perché non consiste di
essenze/concetti e neanche di fini, poiché offre solo
mezzi e procedure;
- opera diversamente poiché non pretende di dedursi da
proposizioni generali: né da proposizioni su essenze né
da proposizioni su fini e scopi;
- esso si limita ad orientare processualmente un processo
di autoproduzione del diritto da se stesso.
b) Il sistema non è un dato originario ma è un’autoproduzione della legge,
il prodotto della sua autoorganizzazione.
Questo insieme di strutture, nelle quali consistono le norme
giuridiche, sono poste al fine di risolvere i problemi della
società (concepita, ora, come un’insieme di individui privati e
irrelati).
Esse operano, perciò, mediante la rappresentazione di un
problema sociale, al quale viene collegata una sua soluzione.
70
Lavorano come un computer che formula ipotesi ed a ciascuna
ipotesi collega una conseguenza e funziona come un computer nel
senso che ad ogni input fa seguire un output ispirato ad una ratio
funzionale.
Questo insieme di strutture normative è chiamato a
fronteggiare la complessità sociale, il tumulto che
continuamente chiede di essere regolato, stabilizzato: il
molteplice che richiede di coesistere entro un “ordine”, che
nella specie è fondamentalmente un ordine procedurale,
formale.
Questo tumulto mette alla prova le strutture normative,
richiede loro di scomporsi e ricomporsi in modo tale da
stringere le griglie con le quali esse comprendono i problemi del
mondo, li selezionano e li avviano alle loro soluzioni.
Il sistema del diritto nasce appunto da questa pressione
dell’ambiente sociale e dall’autoorganizzazione che le strutture
normative si vengono continuamente dando per fronteggiare
adeguatamente questo tumulto.
Questa ridefinizione delle strutture normative ne determina
una riorganizzazione (poiché i rapporti reciproci ne risultano
modificati). E questa riorganizzazione è istitutiva delle strutture
in sistema.
c) L’interpretazione non è estranea al sistema ma si dà come sua
componente, che continuamente lo produce secondo il paradigma
dell’autoriflessione.
La riorganizzazione in forza della quale il sistema giuridico
si autoproduce è, dunque, un processo non esterno ma interno
al sistema: l’interpretazione che a codesta riorganizzazione
presiede, è, perciò una prestazione del sistema verso sé stesso.
Il sistema effettua questa prestazione verso sé stesso
potenziando la sua capacità di comprensione della complessità
incrementale attraverso l’accrescimento della propria
autocomprensione.
A questo accrescimento della propria capacità di
autocomprensione presiede un dispositivo sistemico che prende
il nome di riflessione: Il sistema reagisce alla complessità
71
incrementale, alla turbolenza, alle “irritazioni” che provengono
dal suo ambiente, ritornando su sé stesso per rafforzare la
propria identità e rivolgersi alla complessità sulla base di una più
chiara comprensione di sé.
L’autoriflessione consiste, dunque in un guardare del
sistema a sé stesso: interrogato dalla complessità, il diritto, per
rispondervi, si interroga sulla sua identità e così precisa, volta a
volta, tale sua identità, riguardandola e ridefinendola in modo
più intenso.
Un sistema, dunque, è portatore di un ordine autoprodotto
che si accresce continuamente, è organizzazione che si
riorganizza di continuo.
Anzi un sistema è tale in quanto riesce ad accrescere il
proprio ordine, trasformando il disordine sopravvenuto in un
ordine più ricco e articolato: order from desorder, order from noise,
sono le formule più impiegate dall’epistemologia della
complessità.
Ma come avviene questo ? Da dove il sistema trae le risorse
per moltiplicarsi ? E perciò, su quali termini agisce il dispositivo
dell’autoriflessione sistemica ?
6.-. L’interpretazione come autoproduzione
Il sistema trae queste risorse da sé stesso, e cioè dal surplus
regolativo presente nelle rationes, nei principi
regolativi/organizzativi contenuti in ciascuna delle sue norme.
Ed è appunto questo surplus regolativo che è oggetto del
dispositivo dell’autoriflessione.
Ogni norma è costituita da un principio regolativo e dalla
determinazione di un confine entro il quale esso è costretto ad
operare.
Un principio organizzativo ha potenzialità illimitate e perciò
non può convivere con altri principi se non a condizione di
essere confinato.
Questo confine è rappresentato dalla fattispecie, e cioè dal
tipo di fatto al quale è limitata l’operatività del principio.
72
Tradizionalmente, la fattispecie è stata rappresentata come
una somma di elementi (= concezione sommativi o aritmetica
della fattispecie) e quindi sottoposta al principio di identità ed
implementata attraverso un calcolo aritmetico: solo se il caso
concreto presenta tutti gli elementi del caso astratto la regola è
applicabile.
Ma la fattispecie è anche altro, anzi è soprattutto altro: è
un’interpretazione del mondo, è costruita secondo una
“veduta” (a partire da un punto di vista) in forza della quale il
diritto ha creato un duplicato della realtà e lo ha messo in
accoppiamento con essa (es.. il fatto economico dello scambio è
accoppiato al suo equivalente giuridico che è il contratto).
Ogni fattispecie, perciò, incorpora una “proporzione” tra
diritto e realtà, è il frutto di un calcolo proporzionale ed include
una relazione tra diritto e realtà, una interpretazione della realtà.
Questa proporzione è, appunto, la risorsa alla quale il
sistema attinge per rafforzare la propria identità e comprendere
le complessità pretermesse o sopravvenute che si presentano al
sistema giuridico come “caso concreto” (= caso
organizzazionale) che non riesce ad essere congruamente
selezionato e risolto dall’assetto sistematico (= dal livello di
organizzazione) che esso, allo stato, presenta.
Questa proporzione funziona, dunque, tanto per avvertire
il manifestarsi o l’insorgere di incongruenze che per risolverle
attraverso nuove organizzazioni delle norme e dei loro rapporti
con i problemi sociali.
Esemplare in tal senso è il caso dei vizi e difetti dell'immobile
venduto, allorchè il venditore ne sia anche costruttore. Qui, dunque, il
caso ha già la «sua» regola (costituita dalla disciplina degli artt. 1490
ss.), la fattispecie legale è perfettamente in grado di selezionarlo, e
tuttavia un qualche indicatore sistemico avverte che quella potrebbe
non essere più la «sua» regola, e cioè che la sovrapposizione
sistematica delle figure di venditore e costruttore fa emergere una
sopravvenuta incapienza della disciplina dei vizi della compravendita.
Ma una volta che la sovrapposizione delle figure del
venditore e del costruttore si configuri, per la sua sistematicità, come
73
«caso organizzazionale», cioè come un caso che segnala
un’incongruenza, si produce l’esigenza di un riassetto delle fattispecie,
in ragione del quale tale caso, attraverso una nuova organizzazione,
possa essere ricondotto, infine, alla «sua» regola, ossia alla regola
divenuta ora adeguata alla sopravvenuta formazione di un ambito
della contrattazione immobiliare dove il venditore è anche,
sistematicamente, costruttore. Ma anche la individuazione di tale
regola appropriata abbisogna, a sua volta, di un criterio selettivo, che
evidentemente consiste in quel medesimo indicatore sistemico che ha
segnalato l'inadeguatezza della regola, cui il caso sarebbe stato
altrimenti avviato, e che, per ciò stesso, lo orienta verso una regola
alternativa. Nell'esempio, è la circostanza che il venditore sia anche
costruttore che, mentre segnala la sopravvenuta inadeguatezza della
disciplina della vendita, orienta al contempo verso la disciplina
dell'appalto.
E' proprio il carattere strutturalmente comparativo di queste
relazioni proporzionali, che costituisce l'indicatore sistemico, sulla
base del quale il sistema opera controlli di congruità ed eventualmente
innesca processi di ulteriore autorganizzazione. Cosicchè,
nell'esempio, è la comparazione della «proporzione» sottesa alla
disciplina dei vizi nella vendita con la «proporzione» sottesa alla
disciplina dei vizi nell'appalto a segnalare l'inconguenza della prima
rispetto alla fattispecie concreta (ovvero al nuovo «tipo sociale») del
venditore / costruttore e ad orientare tale caso verso la seconda (ossia
verso gli artt. 1667 ss, che disciplinano vizi e difetti nell’esecuzione
dell’appalto).
Ciò non è, in fondo, molto diverso da quanto, circa
quarant'anni addietro, era stato lucidamente intuito da T.
Ascarelli: ogni fattispecie evoca una «ricostruzione tipologica
della realtà in funzione della disciplina normativa», e dunque
implica una «congruenza» tra tale disciplina e la realtà che essa
così (= per via della «ricostruzione» che ne fa) comprende; ogni
modificazione della realtà, che si spinga fino al punto da
incidere sul senso della ricostruzione tipologica originariamente
74
incorporata nella norma, altera, dunque, il rapporto normativo
di «congruenza» tra norma e realtà e pone il problema di un
recupero sistematico della «congruenza» perduta.
La riflessione sistemica consiste dunque in questo ritorno
del diritto su se stesso per riattingere le proporzioni che hanno
presieduto alla organizzazione dei suoi principi regolativi
secondo i confini delle fattispecie normative, per attingere i
rapporti di congruenza tra norma e complessità sociale
considerata e ripristinare la congruenza perduta.
In tale riflessione sistemica consiste, per conseguenza,
l’interpretazione del diritto: essa passa, perciò, attraverso la
tramutazione della forma “aritmetica” della fattispecie
(l’organizzazione data di un principio e del suo confine) nella
proporzione ad essa sottesa e la ritraduzione di questa
proporzione in una nuova formulazione aritmetica (la nuova
organizzazione del principio secondo un nuovo confine).
Tutto questo mostra come l’interpretazione, contro la
polarizzazione tradizionale tra cognitività e creatività, sia una
creazione cognitiva.
- è una creazione, perché produce sempre nuova
organizzazione, un’organizzazione che prima non c’era
e che viene creata ex novo;
- questa creazione è, però, cognitiva perché questo novum
è istituito a partire da un positum, dal già dato: si sviluppa
a partire dal ri-conoscimento di una proporzione che è
già data nelle norme e nei loro vincoli sistemici;
Tutte le metodologie interpretative elaborate dai giuristi
costituiscono metafore di questa creazione cognitiva.
7.- Interpretazione e analogia.
7.1.- Il problema delle lacune ed il postulato della completezza
del sistema giuridico.
75
L’art. 12, comma 2, delle Preleggi stabilisce che “Se una
controversia non può essere decisa con una precisa
disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi
simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, di
decise secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico
dello Stato”.
In tale norma, dunque, si ipotizza che si rinvenga una
lacuna, un caso non sussumibile sotto una precisa disposizione
normativa, e si dispone che tale lacuna venga colmata
applicando al caso non previsto la norma che regola casi simili (=
analogia legis) o, in mancanza, il principio generale (= analogia juris)
che più ad esso si confà.
Quello delle lacune e del modo di colmarle è
tradizionalmente uno dei luoghi più importanti della riflessione
teorica sul diritto positivo (e sul positivismo giuridico). Ma il
suo rilievo pratica è a tale importanza teorica inversamente
proporzionale: non solo la giurisprudenza, ma la stessa dottrina
usano in modo dichiarato dell'analogia con insospettata parsimonia.
Più esattamente, l'una e l'altra si avvalgono usualmente di
procedimenti nella sostanza analogici, ma, in ragione dei
pregiudizi originati da un malinteso giuspositivismo, solo
raramente motivano le loro interpretazioni e decisioni
riconoscendo di applicare una disposizione che propriamente
regola «casi simili o materie analoghe» o, addirittura, uno dei
«principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato». Di
norma accade, invece, che le lacune sia «prevenute» in via di
interpretazione c.d. estensiva (v. infra), ossia attraverso
manipolazioni interpretative dei testi normativi atte ad inglobare
le fattispecie concrete che, diversamente, rischierebbero di
apparire «non regolate».
Ciò dipende dalla differenza, che normalmente si fa, tra
interpretazione ed analogia: con la prima – si dice – l’interprete
si limita a trarre dalla norma tutto il potenziale regolativi in essa
presente e, perciò, si limita ad applicarla secondo la sua reale
intenzione; con la seconda, invece, l’interprete – si dice – va
oltre l’intenzione del legislatore e aggiunge all’ordinamento una
regola del tutto nuova, ancorché costruita attraverso il materiale
offerto dalle altre norme che lo compongono.
76
Il problema delle lacune rappresenta l'altra faccia del
postulato di completezza del sistema giuridico. Di tale postulato
sono stati dati tre ordini di spiegazioni: lo si è inteso, infatti,
talvolta come postulato logico (= impossibilità logica delle c.d.
lacune), tal'altra come pretesa sistematica reale (= possibilità
logica delle c.d. lacune, ma possibilità al tempo stesso di
colmarle per via di autointegrazione), e altre volte ancora come
istanza essenzialmente ideologica (= impossibilità logica delle
lacune, conseguente carattere ideologico della loro
prospettazione e delle c.d. tecniche di completamento del
sistema).
Secondo la prima concezione, dato un ordinamento
giuridico, ogni comportamento possibile riceverebbe da esso
necessariamente uno status deontico in termini di obbligo/divieto o
permesso: essa solitamente si fonda, perciò, sul principio del
«terzo escluso» (se un comportamento non è vietato o dovuto,
esso non può che essere giuridicamente permesso), più o meno
corretto dalla postulazione di una «norma generale esclusiva»
(tutto ciò che non è vietato è permesso) o del c.d. «spazio
giuridico vuoto» (tutto ciò che non è espressamente regolato è
giuridicamente irrilevante).
La seconda concezione è propria della c.d. dommatica
giuridica e sostituisce all'idea della completezza «espressa» quella
della completezza «implicita» o «completibilità per via di
autointegrazione» intesa come espansione logica e come
procedimento conoscitivo; essa si basa sulla pretesa razionalità
del diritto e sulla diade legislazione / sistema giuridico: vi
possono essere lacune nella legislazione, ma esse possono
essere colmate attraverso la considerazione sistematica del diritto,
lo sviluppo logico delle rationes incorporate dalle leggi e
delle quali queste ultime rappresentano una manifestazione
talvolta imperfetta, ma appunto perfettibile.
La terza concezione della completezza in realtà non è
altro che l'esito della critica delle posizioni precedenti: essa
suppone che sia vera la postulazione logica della completezza,
che perciò le lacune scaturiscano esclusivamente dal carattere
insoddisfacente della soluzione che «logicamente» discende
dall'ordinamento e che esse emergano dal confronto tra
77
ordinamento reale e ordinamento ideale (lacune c.d.
deontologiche). Segnatamente, essa è critica verso la prima
concezione per il sacrificio del valore della «giustizia» in favore
di quelli della «certezza» e «libertà», e critica verso la seconda
per il logicismo e l'onnipotenza del legislatore che postula.
7.2.- Il problema delle lacune tra differenziazione sistemica
e complessificazione dell'ambiente: lacune originarie e
lacune evolutive.
Grossomodo si può dire che un ordinamento è un
insieme di principi, nel senso che è costituito da una
molteplicità di rationes atte a ridurre la complessità dell'ambiente
attraverso rimedi che offrono soluzioni ai relativi problemi, cioè
attraverso prestazioni risolutive.
Ma, preso in sé, ciascuno di questi principi presenterebbe
in qualche modo una intenzione relativamente indefinita,
avrebbe in certo qual modo una pretesa di conformazione che
si estenderebbe a interi ambiti problematici, e finirebbe, perciò,
con il collidere con le pretese regolative degli altri principi rivali.
Ogni principio, infatti, incorpora sempre un tipo molto generale di
problema ed una sua soluzione in una direzione tendenzialmente
unilaterale. Ciascun principio, preso in sé, perciò, conterrebbe, in linea
di massima, una potenzialità incondizionata di selezione e di
risoluzione di ambiti problematici molto vasti del giuridico, destinata
a collidere con le potenzialità analogamente incondizionate di altri
principi (ad es., principio della colpa e principio della «rischio»
prospettano soluzioni potenzialmente universali del problema della
riallocazione dei danni; principio della volontà e principio della
dichiarazione prospettano anch'essi soluzioni potenzialmente
universali di molti cruciali problemi del contratto, ecc.). Perché una
molteplicità di principi possa coesistere entro un medesimo
ordinamento, così come è necessario che avvenga in ogni sistema che
raggiunga un certo grado di complessità, è, allora, necessario che essi
siano confinati e/o gerarchizzati, ossia sottoposti nel primo caso ad
un processo di differenziazione del campo problematico recato da
ciascun principio in distinti sotto—ambiti problematici, ai quali ven78
gono rispettivamente riferiti principi diversi (ad es., distinguendo
l'ambito delle attività quotidiane da quello delle attività d'impresa e
riferendo al primo il principio della colpa ed al secondo quello della
«rischio»), e nel secondo ad un processo di ulteriori differenziazioni
funzionali che determinano quando all'interno dello stesso campo
problematico o dei sotto—ambiti, nei quali è stato scisso, «vale» un
principio e quando esso deve cedere ad un altro (ad es., vale il
principio della volontà o quello della dichiarazione a seconda delle
aspettative di significato ingenerate nell'altro contraente). Cosicché
può anche accadere che confinazione e gerarchizzazione partoriscano
principi sintetici di secondo grado (ad es., garanzia + attività
d'impresa = principio del rischio d'impresa; dichirarazione +
aspettative ingenerate = principio dell'affidamento, ecc.), e così via.
Dunque, onde consentire la coesistenza di principi
rivali, il sistema giuridico provvede a determinare con cura
l’ambito di applicazione di ciascun principio attraverso la
descrizione del tipo di problema (= della fattispecie) al quale è
limitato il suo dominio regolativi, cioè provvede a determinare i
suoi confini, alla sua confinazione, e/o a stabilire il rapporto di
prevalenza o subordinazione con gli altri principi che
potrebbero ambire a regolare la medesima materia, alla sua
gerarchizzazione.
Confinazione e gerarchizzazione avvengono, peraltro,
secondo il «senso» del sistema, sono esito del suo processo di
differenziazione funzionale, che si esplica sul piano
longitudinale e verticale. Sicché un ordinamento costituisce un
sistema di principi (= rationes) costruito secondo un «senso», è la
sistemazione dei principi secondo una programmazione.
A questa stregua, ogni norma di un ordinamento è
espressione di un principio. Ma nella norma il principio, di per
sé incondizionato, si presenta, invece, come condizionato. Libri,
Capi, Rubriche e, soprattutto, Norme (= fattispecie normative),
in cui è articolato il Codice civile, rappresentano, appunto, i
diversi gradi e le diverse tecniche di condizionamento che un
principio subisce per consentirne la coesistenza con gli altri,
l'ambito problematico nel quale viene ridotto il tipo generale di
problema in esso incorporato ed al quale viene confinata la
79
validità della direttiva di soluzione da esso recata in guisa da
assicurarne la compatibilità con tutti gli altri.
Su queste basi, il problema delle lacune si può porre in
due direzioni.
Innanzitutto, può anche accadere semplicemente che il
gioco della settorializzazione (Rubriche, Capi, ecc.) causi al
legislatore una defaillance sistematica. E’ questo il caso di quelle
che si possono definire lacune originarie. Esso ricorre allorché un
conflitto sociale pertiene al campo di regolazione dell'ordinamento,
è originario (nel senso che l'eventualità di un tale
conflitto corrisponde al grado di complessità sociale già
considerato dall'ordinamento), «dovrebbe» perciò essere
regolato, stando alla «lettera della legge», secondo un certo
principio espresso o implicito, e tuttavia un'altra norma, i cui
criteri selettivi (fattispecie, rubriche, capi, ecc.) impediscono di
sussumerlo sotto di sè, segnala per esso una direzione di senso
diversa. Precisamente, tali lacune originarie ricorrono allorché
sussistono per il sotto—ambito «tralasciato» le medesime
ragioni che hanno indotto il legislatore a riferire ad altri sotto—
ambiti diversamente nominati principi diversi o principi di secondo
grado.
In secondo luogo, va considerato che ogni sistema a
carattere normativo—istituzionale si rapporta ad un certo grado
di complessità dell'ambiente. Ma la complessità dell'ambiente
può accrescersi, e ciò può far sì che un conflitto sociale assuma
nuovi connotati, tali che lo facciano «sporgere» dal principio,
cui in atto è riferito, e lo attraggano verso un altro principio, i
cui criteri selettivi però non sono in grado di sussumerlo.
In questo caso ricorrono quelle che si possono definire
lacune evolutive. In esse la l’insorgenza, o meglio la sopravvenuta
esuberanza di un conflitto sociale rispetto alla settorializzazione
già posta, dipende dalla sopravvenuta complessificazione
dell'ambiente (o dello stesso ordinamento: nel caso di
introduzione di nuove leggi recanti nuovi principi), che lo rende
(il conflitto) estraneo alla logica, al senso che ha presieduto alla
formazione dei sotto—ambiti e dei principi, cui sono stati fino
ad allora riferiti, ed omologhi, invece, ad altri sotto—ambiti ed
80
ai relativi diversi principi, le cui griglie selettive, tuttavia,
appaiono ancora respingerli.
Perché in tutti i superiori casi i conflitti e le vicende
sociali, rimasti originariamente non contemplati o divenuti
successivamente (per i menzionati processi di complessificazione)
esuberanti rispetto alle previsioni normative, possano essere
compresi, regolati e risolti dal sistema giuridico, è necessario,
allora, che le prestazione selettive di questo siano adeguatamente
potenziate attraverso un'autoriflessione. E cioè attraverso
un «ritorno su sé stesso», che il sistema giuridico (attraverso i
suoi interpreti) effettua, per comprendere il senso delle
operazioni (di settorializzazione di ambiti problematici e rationes)
compiute e svilupparlo in direzione delle situazioni rimaste o
divenute «lacunose».
In tale attività riflessiva consistono, appunto, le c.d.
tecniche analogiche di completamento del sistema giuridico.
La riflessione attivata da tali tecniche analogiche
consiste, propriamente, nella rievocazione della «proporzione» che
il legislatore ha «sommativamente» rappresentato nella
fattispecie normativa e nella riattivazione dell'interpretazione del
mondo in essa racchiusa, onde comprendere su queste basi il
trattamento giuridico da attribuire al “caso non regolato”.
7.3.- L’autointegrazione del sistema giuridico attraverso le
tecniche analogiche: analogia legis e analogia juris.
La conclusione che un conflitto concreto o una
situazione sociale fuoriescono dal sotto—ambito problematico
proprio della norma, cui sembrerebbero a tutta prima
riconducibili, può fondarsi solo sulla seguente considerazione.
Tale considerazione è che — come prima si è detto —,
originariamente o per una sopravvenuta complessificazione, si
rinvengono in tale conflitto o situazione le medesime ragioni (= il
medesimo tipo di problema), che hanno già indotto il legislatore
alla formazione di un altro sotto—ambito (= di un’altra fattispecie)
al quale ha già riferito un principio regolativo diverso (= analogia
legis); ovvero ragioni tali che, se da esso considerate, lo avrebbero
81
indotto alla formazione di un ulteriore distinto sotto—ambito (= di
un’ulteriore distinta fattispecie), al quale riferire uno dei principi
già da esso positivamente introdotti rispetto a tipi di problema
parzialmente diversi (= analogia juris).
Questo è il caso della lacuna in senso proprio. E le due
ipotesi in esso prospettate corrispondono grossomodo ai campi
di operatività dei due diversi tipi di analogia attraverso i quali le
lacune possono essere colmate.
Allorché la lacuna dipende dalla considerazione che nel
conflitto o nella situazione sociale considerati ricorrono le
«medesime ragioni» che hanno indotto il legislatore alla
formazione di un altro sotto—ambito al quale ha riferito un
principio diverso (da quello che a tutta prima sembrerebbe
riferibile al conflitto o alla situazione considerati), lo strumento
per colmarla consisterà nella c.d. analogia legis.
Segnatamente, tale tipo di analogia ricorre, allorquando
il tipo di problema, secondo il quale possono essere giuridicamente
compresi il conflitto o la situazione sociale in questione,
corrisponde al tipo di problema compreso e risolto da una
specifica norma dell'ordinamento, e tuttavia i criteri selettivi
propri di tale norma (= gli «elementi» che ne compongono la
fattispecie) impediscono di applicarla direttamente a tale conflitto
o situazione (che, perciò, — si badi — in assenza
dell'analogia, non rimarrebbero privi di regolazione, ma
verrebbero regolati secondo una norma, espressa o implicita,
inappropriata).
Può accadere, dunque: che il medesimo tipo di
problema, che un conflitto concreto o una situazione sociale
propongono, si presenti in un'altra «materia»; che i nomina juris,
con cui tale conflitto o tale situazione possono essere descritti,
non corrispondano ai nomina, con cui il tipo di problema, al
quale essi sono riconducibili, è descritto nella norma che lo
considera e risolve; e che tale diversità descrittiva precluda a tale
norma di selezionare e risolvere il summenzionato conflitto e la
suddetta situazione sociale nonostante la loro riconducibilità al
medesimo tipo di problema da essa considerato.
Questo è appunto il campo di elezione dell'analogia legis,
che pertanto si risolve essenzialmente in una ridescrizione del
82
tipo di problema astraendo da «termini» e «parole» proprie della «materia»
(= istituto o capo, titolo, ecc.) ma ininfluenti ai fini della
ricostruzione del tipo normativo di problema.
Un esempio (un pò banale) può essere questo: le norme sul
comodato nulla dispongono a proposito delle molestie di terzi che
pretendono di avere diritti sulla cosa concessa in comodato; ciò dovrebbe
comportare che in forza dell'implicita «norma generale
esclusiva» il comodatario non sia tenuto ad informare il comodante di
tali molestie; l'art. 1586 in materia di locazione dispone, invece, che il
conduttore ne dia avviso al locatore sotto pena del risarcimento dei
danni; si può ritenere che il tipo di problema disciplinato dall'art. 1586
sia il medesimo di quello che in caso di simili molestie si pone in un
rapporto di comodato; si può altresì ritenere che le ragioni che
presiedono alla disciplina dell'art. 1586 siano indipendenti dal
carattere oneroso o gratuito del rapporto e dipendano solo dalla
situazione di godimento alieno della cosa; sulla base di questi ragionamenti
si può, allora, concludere che la mancata previsione, in materia di
comodato, di una regola simile a quella dell'art. 1586 non può valere
ad esentare il comodatario dal dovere di informazione, che la
disciplina del comodato presenta, perciò, una lacuna (di tipo
«originario») e che tale lacuna può essere colmata applicando
analogicamente, appunto, l'art. 1586.
Nell'analogia legis, dunque, si applica una norma particolare
semplicemente cambiando i nomina strettamente dipendenti
dalla sua collocazione sistematica all'interno di un codice con i
nomina propri del conflitto o della situazione sociale non
contemplati sulla base della loro reciproca fungibilità in ordine
al tipo di problema ed al principio di soluzione in essa (norma)
recati. Tutti gli altri termini della fattispecie normativa
rimangono, invece, fermi, e cioè rimangono fermi, in quanto
comuni tanto al caso contemplato che a quello non
contemplato, tutti gli altri termini della descrizione normativa
del tipo di problema.
Nell'es., si cambia: «conduttore» con «comodatario» e «locata»
con «concessa in comodato»; ma rimangono fermi: il termine «cosa» e
il concetto di «godimento» ad essa implicitamente riferito, l'«arrecano
molestie pretendendo di avere diritti sulla cosa», ecc.).
83
Sostituzioni e conferme della descrizione sommativa
recata dalla fattispecie avvengono, perciò, sulla base di un
giudizio di «eguaglianza nonostante la non identità» sviluppato
esperendo sistematicamente un “calcolo proporzionale”.
Può anche accadere, però, che l'operazione analogica
dianzi prospettata non sia sufficiente a ricomprendere e
risolvere il caso non contemplato. Precisamente, può accadere
che si presentino ulteriori conflitti e situazioni sociali irriducibili
ai termini della descrizione normativa anche non
immediatamente dipendenti dalla sua collocazione sistematica e
che, d'altronde, il tipo di problema contemplato nella norma
tolleri un'ulteriore astrazione anche rispetto a tali altri termini.
Allorché si verifica tale ipotesi, sussistono le condizioni
per la c.d. analogia juris.
Tale diversa forma di autointegrazione ricorre, perciò,
quando si reputi possibile sostituire tutti i termini della
fattispecie normativa, e perciò anche quelli non
immediatamente dipendenti dalla sua collocazione sistematica,
con termini più generali (cioè che stiano rispetto ai primi in
posizione di genus a species) atti a ricomprendere il conflitto o la
situazione non contemplati, senza che tale ulteriore
cambiamento modifichi il tipo normativo di problema e le
«ragioni» che hanno indotto il legislatore a riferirgli un principio
di soluzione piuttosto che un altro
Per proseguire nell'esempio di prima: il tipo di problema ed il
principio di soluzione recati dall'art. 1586 tollerano, probabilmente,
un ulteriore astrazione, che porti ad una proposizione normativa
secondo la quale «chiunque si trovi in un rapporto giuridicamente
qualificato con un'altrui situazione giuridicamente protetta è tenuto ad
informare il titolare di tale situazione delle iniziative di terzi che possano
pregiudicarla». Ed a sua volta da tale più generale precetto, sembra
legittimo ricavare l'ulteriore precetto negativo secondo il quale «al di
fuori di rapporti giuridicamente qualificati, nessuno è tenuto ad
informare altri di iniziative di terzi pregiudizievoli alle loro situazioni
giuridicamente protette». E ciò sulla considerazione che la sussistenza
di un rapporto giuridicamente qualificato con un'altrui situazione
protetta è il criterio adottato dal legislatore per comporre l'antinomia
84
tra un principio rigidamente individualistico (= nessuno è tenuto ad
informare ...) ed un principio — per così dire — solidaristico (=
chiunque è tenuto ad informare ...), ciascuno dei quali astrattamente
in grado di risolvere il generale problema del comportamento esigibile
da chi ha notizia di iniziative pregiudizievoli per le altrui situazioni
giuridicamente protette.
Il campo operativo dell'analogia juris è, dunque, quello
delimitato da un processo astrattivo di grado immediatamente superiore a
quello messo in opera nell'analogia legis. Il tipo di problema
descritto in una o più norme del sistema è, con essa, ridescritto
sostituendo ai nomina juris con cui esso è identificato in tali
norme le categorie più generali nelle quali tali nomina possono
essere ricompresi.
Nell'es.: situazione giuridicamente protetta in luogo di diritto
di proprietà sulla res, rapporto giuridicamente qualificato in luogo di
locazione o comodato, iniziative pregiudizievoli in luogo di pretese di
diritti.
Il principio di cui, con essa, si fa applicazione è
semplicemente un principio positivo di grado superiore, e cioè
un principio corrispondente a principi di soluzione già adottati
nell'ordinamento, ma riformulato in termini più generali ed
astratti di quelli con i quali tali principi di secondo grado si
ritrovano espressamente contemplati.
Il fondamento dell'estensione del principio (quale risulta
da una tal riformulazione di una o più fattispecie normative) al
conflitto o alla situazione non contemplati è rappresentato
sempre dalla ricorrenza, in esso, della medesima proporzione
presente nella norma o nelle norme da cui è tratto. E perciò il
limite dell'analogia juris (e dei procedimenti astrattivi in cui essa
consiste) è costituito dalla conservazione (rispetto al caso non
contemplato) della “proporzione” recata da una o più norme (in
riferimento ai casi da essa o da esse considerati).
Le condizioni di assunzione di un principio regolativo in
un procedimento analogico possono, perciò, così essere
sommariamente enumerate: (a) l'incorporazione in tale principio
del medesimo (ancorché formulato in termini più generali e
85
astratti) tipo di problema che, in forma più concreta, si ritrova
contemplato e risolto in una o più norme del sistema; (b)
l'irrilevanza, comparativamente apprezzata, delle determinazioni
che principio e tipo di problema ricevono in tali norme (la quale
irrilevanza si desume, appunto, dall'assenza di norme che in
dipendenza di tali determinazioni formulano sotto—ambiti
distinti riferendo ad essi principi di soluzione diversi); (c) la
riconducibilità di conflitto o situazione non contemplati a tale
(più generale) tipo di problema ed al relativo principio di
soluzione.
7.4. Tecniche analogiche e tecniche interpretative:
l'interpretazione estensiva e restrittiva
La medesima struttura di ragionamento ricorre, altresì,
nella c.d. interpretazione estensiva e, per conseguenza, nella c.d.
interpretazione restrittiva, che le è necessariamente correlata.
Come si è detto, il sistema si costituisce a partire da una
certa complessità dell'ambiente e dalla sua comprensione
secondo un senso determinato. Codesta comprensione è,
perciò, relata alla complessità presupposta ed al principio
secondo il quale è stata interpretata e semplificata nell'astrazione
normativa. Può, però, accadere che nel corso del tempo il
grado di complessità dell'ambiente, e segnatamente dei problemi
sociali risolti da una particolare normativa, si accresca a
tal punto che la comprensione che il sistema ha
normativamente elaborato di tali problemi risulti inadeguata.
Quando ciò avviene, i dati problematici assunti a
fondamento dell'astrazione normativa e del rimedio ad essa
relativo non corrispondono più alla nuova complessità che
presentano i problemi reali che alla loro stregua occorrerebbe
risolvere.
Ogni norma muove da una propria ricostruzione, da un
proprio modello della complessità considerata, dello spezzone
di mondo che riproduce come “tipo di fatto”, come elemento
interno del sistema giuridico sotto forma di fattispecie Codesto
modello (che consiste nella c.d. fattispecie normativa) racchiude
86
l'idea che il sistema giuridico si è fatta della complessità che ha
«visto» e l’«accoppiamento» di tale modello con tale complessità
(e cioè con le esigenze e i problemi sociali) manifesta la
«proporzione» che l’ordinamento ha stabilito, secondo la
«misura» sua propria, tra sè e la realtà sociale.
Quando esigenze e problemi si accrescono in guisa tale
che la medesima «misura» giuridica ne imporrebbe
un'interpretazione diversa da quella già elaborata nel modello, la
proporzione tra modello e complessità considerata salta: il
modello diviene sproporzionato e la complessità incrementale,
alla quale esso continua ad essere «formalmente» accoppiato,
rimane obliterata.
Di solito, questa accresciuta complessità non può
acquisire, in quanto tale, rilevanza giuridica: essa continuerà ad
essere ascritta ad una fattispecie normativa che non tiene conto
di ciò che la rende qualitativamente diversa dalla complessità in
vista della quale tale fattispecie era stata originariamente
disegnata. Perchè codesta complessità incrementale acquisisca
visibilità per il sistema è, infatti, necessario che venga riferita ad
un nuovo tipo normativo di problema, ad una nuova fattispecie
che la distingua dalla complessità originaria. Ma l'operatività di
una nuova fattispecie dipende da un'innovazione normativa, e
cioè da un'autopoiesi formale, che introducendo un nuovo criterio
selettivo ed un nuovo rimedio sviluppi il processo di
differenziazione del sistema.
Può anche accadere, però, che il sistema, sebbene in
riferimento a problemi sociali parzialmente diversi, abbia
prodotto già un tipo di comprensione (= tipo di problema +
tipo di rimedio) adeguato a codesta complessità incrementale. E
cioè che si dia già, nel sistema, un'altra «proporzione» che
rispecchi la «veduta» che gli si può ascrivere di codesta
complessità incrementale.
In tal caso, sotto determinate condizioni, sarà
sistemicamente legittimo che i conflitti e le situazioni sociali,
che danno corpo a codesta complessità incrementale,
trascorrano dal tipo di problema, che originariamente li
comprendeva e che ora non è più in grado di comprenderli
(così procurando un'interpretazione restrittiva della norma di
87
partenza), ad un altro tipo di problema sempre normativamente
strutturato, che originariamente non li comprendeva ma il cui
senso risulta ora adeguato alla loro nuova complessità (così
procurando un'interpretazione estensiva della norma di arrivo).
Esemplare di un tale processo è quanto è avvenuto in tema di
vizi e difetti nella compravendita degli immobili urbani, quando, per
effetto delle trasformazioni del mercato, le figure del venditore e del
costruttore, prima rispettivamente comprese dalle distinte discipline
della vendita e dell'appalto, si sono cumulate nella figura socio—
economica del venditore—costruttore: la questione dei vizi e difetti
dell'immobile venduto fuoriesce in tali casi dalla ratio della disciplina
dei vizi nella vendita, che supponeva una figura non professionale di
venditore (almeno di beni di lunga durata come gli immobili), e viene
attratta dalla disciplina dei vizi dell'appalto, che invece l'analogo
problema risolve proprio in relazione alla specifica circostanza che
chi è chiamato a rispondere sia il costruttore dell'opus, e quindi colui
che ha avuto il controllo della sua produzione e che, perciò, ne
sopporta il rischio. E così il sistema giuridico si riassesta attraverso
un’interpretazione restrittiva degli artt. 1490 ss. (relativi alla vendita)
ed un’interpretatzione estensiva degli artt. 1667-1669 (relativi
all’appalto).
7.5.- Il limite dell’art. 14 delle Preleggi alle tecniche
analogiche.
Il paradigma metodico del tipo normativo di problema e la
disaggregazione ragionata delle discipline «tipiche», che esso
consente, esaltano la predisposizione sistemica a tali operazioni
interpretative e potenziano l'uso del surplus regolativo
disseminato nel corpo normativo.
Esse, però, mostrano anche l'insensatezza e la
contraddittorietà del limite dell'«eccezionalità» al quale l'art. 14
delle c.d. Preleggi vorrebbe sottoporre l'utilizzazione delle
tecniche analogiche.
La stessa struttura sistemica del diritto dimostra
l'assoluta inutilizzabilità di codesto criterio dell'eccezionalità,
che, peraltro, ritrova già nel corpo del codice diverse palesi
88
smentite (ad es.: gli artt. 1343 e 1344 che, attraverso l'«ordine
pubblico» e la «frode alla legge», abilitano ad estendere
analogicamente norme che, limitando il principio di autonomia,
ben potrebbero ritenersi eccezionali): tutto l'ordinamento,
proprio in quanto sistema, consiste in gerarchizzazioni e
complementarizzazioni di principi regolativi altrimenti
antinomici, sicchè, secondo i moduli della logica tradizionale,
esso sarebbe integralmente rappresentabile come un tessuto di
deroghe e contro-deroghe (per un'esemplificazione illuminante
v. P. Trimarchi).
Come si è visto, la giurisprudenza ha bay-passato il
diposto dell'art. 14 attraverso la distinzione tra analogia e
interpretazione estensiva. Ma codesta distinzione non regge e,
soprattutto, la sua concettualizzazione nella distinzione
superiore tra interpretazione ed integrazione non risponde alla
logica ed alla prassi che presiedono al limite, mal detto, dell'art.
14.
Il tentativo più profondo di interpretazione del limite di
codesta disposizione è quello che ne sposta il piano di
comprensione dalla «logica formale» alla «valutazione politicogiuridica
» e la riarticola sulla distinzione tra «regole di struttura»
e «regole di congiuntura».
A questa stregua l’inestensibilità analogica prevista
dall’art. 14 riguarda non le norme che contribuiscono a
determinare la struttura dell’ordine istituito dal sistema
giuridico, bensì solo le norme che derogano a tale ordine in
ragione di “emergenze” di carattere economico, sociale o
politico (ad es., processi inflattivi e controllo dei prezzi;
emergenze abitative e discipline delle locazioni; ecc.).
La contingenza e variabilità delle leggi congiunturali non
esaurisce, però, l'ambito della ratio del divieto analogico, che si
estende anche a strutture stabili del sistema normativo e che,
pur verso di esse, si darebbe lo stesso anche se non fosse stato
formalizzato nell'art. 14.
Codesto divieto, infatti, incorpora una ratio sistemica, la
quale copre un arco che va dalla inesportabilità delle regole
proprie dei sotto-sistemi della legislazione speciale (ad es.,
inestensibilità delle regole della prelazione agraria alla prelazione
89
urbana; inestensibilità delle regole dell'impiego pubblico al
lavoro privato) alle ipotesi di c.d. tassatività delle condizioni di
accesso ad un trattamento normativo (ad es.: nessuno potrebbe
seriamente immaginare di estendere alla s.p.a. la recente
disciplina delle s.r.l. unipersonali).
Ciò che accomuna lo spazio normativo ricompreso in
quest'arco è (quello che figurativamente si potrebbe definire) il
diritto del legislatore di essere diseguale. Questo «diritto» segna
il confine tra l'autonomia del sistema giuridico e l'autonomia
della politica.
Il divieto analogico va, quindi, compreso come
salvaguardia dell'ambito della decidibilità politica: non si può
procedere in via analogica o mediante interpretazioni estensive
quando il diverso trattamento, che il diritto riserva ad un
conflitto sociale rispetto al trattamento approntato per conflitti
simili, possa imputarsi ad una determinazione “politica” del
legislatore, alla sua positiva intenzione di trattare tale conflitto
in modo diverso dai conflitti simili.
90
Cap. VII.-
Le funzioni fondamentali del sistema giuridico.
1.- Le funzioni fondamentali del sistema sociale.
Il sistema giuridico è chiamato ad assolvere tre funzioni
fondamentali, le quali corrispondono ai compiti che il sistema
sociale è chiamato ad organizzare per garantire la propria
riproduzione a partire da una situazione di divisione sociale del
lavoro.
Un sistema sociale deve organizzare:
(a) la produzione dei beni materiali necessari alla sussistenza della
società, e per far questo deve organizzare il rapporto tra la
comunità o i singoli suoi membri con la natura, ed in genere
con le risorse atte a produrre tali mezzi di sussistenza;
(b) la circolazione di tali risorse e dei mezzi che per il loro tramite
si producono, in modo che chi possieda certe risorse in
esubero e manchi di altre possa cedere ciò che gli esubera e
ottenere ciò che gli manca;
(c) la conservazione delle risorse in capo a coloro cui siano state
attribuite, di modo che non ne siano arbitrariamente privati
e non siano interrotti i processi produttivi da essi avviati.
2.- Le corrispondenti funzioni del diritto.
A queste tre esigenze elementari della riproduzione sociale
corrispondono altrettante funzioni fondamentali del diritto:
(a) la funzione attributiva / conformativa presiede all’organizzazione
del rapporto tra comunità, singoli e risorse: per il suo
tramite il sistema giuridico provvede all’attribuzione della
ricchezza, e cioè legittima e conforma i possessi privati e
l’appropriazione delle utilità che da essi possano scaturire: di
chi sono le risorse, in che modo sono date e chi può
appropriarsi delle utilità da esse ricavabili.
91
(b) la funzione traslativa presiede alla circolazione delle risorse:
per il suo tramite il sistema giuridico determina le
condizioni alle quali le risorse spettanti ad un singolo
possano trasferirsi ad un altro, e dunque le condizioni alle
quali tali risorse possano transitare da chi le possiede o da
chi le ha prodotte a chi ne è privo e ne ha bisogno;
(c) la funzione conservativa preside alla conservazione delle risorse,
per il suo tramite il sistema giuridico provvede a garantire
che le risorse da esso attribuite a taluno non vengano
disperse per effetto dell’agire di altri; ed a questo fine
determina le condizioni alle quali la loro distruzione non sia
ascrivibile al “fato”, ad un accidente di natura e rimanere in
capo a chi l’ha subita ma dia luogo a dispositivi che la
ricostituiscano in capo al danneggiato ed a carico di un altro
soggetto.
3.- Gli istituti delle funzioni giuridiche fondamentali.
Ovviamente, più una società è complessa, più
complesse sono le organizzazioni di queste esigenze essenziali
della sua riproduzione, e più complesse sono, di conseguenza, le
regolazioni che il sistema giuridico è deputato a predisporre.
La complessità di tali regolazioni, tuttavia, non impedisce la loro
unificabilità attorno alle tre summenzionate funzioni
fondamentali, che si raggruppano attorno ad altrettanti istituti
fondamentali del diritto privato:
(a) la disciplina dei beni giuridici (e segnatamente della proprietà,
del possesso, delle obbligazioni/servizi e dei beni immateriali) sulla
base della quale sono risolti i relativi problemi e conflitti
appropriativi;
(b) la disciplina del contratto (ma anche delle successioni e del
mercato e della concorrenza), sulla base della quale sono risolti i
relativi problemi e conflitti traslativi;
(c) la disciplina della responsabilità civile, sulla base della quale
sono risolti i relativi problemi e conflitti conservativi.